Un romano imitò Socrate   - Cicerone 

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Un uomo romano ed ex-console imitò quell'antico Socrate, che, essendo il più sapiente di tutti ed essendo vissuto in modo estremamente pio, si difese egli stesso nel processo capitale così che non sembrava supplice o accusato, ma maestro o padrone dei giudici. Che anzi, avendogli il sommo oratore Lisia portato un'orazione scritta perché la imparasse a memoria, se gli fosse sembrato (lett.: sembrasse) opportuno per servirsene in sua difesa nel processo, la lesse volentieri (lett.: non contro voglia) e disse che era scritta bene: "Ma" - disse - "come se mi avessi portato dei calzari sicionii non (li) userei, sebbene fossero comodi e adatti al piede, poiché non sarebbero degni di un uomo (lett.: virili)", così (disse che) quell'orazione gli sembrava perfetta (lett.: elegante e degna di un oratore), (ma) non (gli) sembrava forte e degna di un uomo. Dunque anch'egli fu condannato; e non solo nella prima votazione nella quale i giudici decidevano soltanto se condannare o assolvere, ma anche in quella che dovevano fare di nuovo in base alle leggi; infatti ad Atene per l'imputato condannato, a meno che non ci fosse un delitto capitale, per così dire una stima della pena; e mentre i giudici davano il voto, veniva chiesto all'accusato quale fosse la pena più alta che egli a suo giudizio meritava (lett.: quale pena affermasse di aver soprattutto meritato. Socrate essendo stato interrogato su ciò, rispose di meritare (lett.: aver meritato) di essere premiato con i più alti onori e premi e che gli fosse offerto il vitto quotidiano a spese pubbliche nel Pritaneo, onore che presso i Greci è stimato il più grande. Per questa risposta i giudici si adirarono talmente che condannarono a morte quell'uomo integerrimo.