(Cordova, 39 d.C. - Roma, 65 d.C.)

LA VITA:

 

39 d.C. 

Lucano nasce a Cordova, in Spagna; è nipote di Seneca. Un anno dopo la famiglia si trasferisce a Roma, dove Lucano frequenterà la scuola di Anneo Cornuto, ex liberto di Seneca, filosofo stoico e maestro anche di Persio. Oltre a coltivare la filosofia, Lucano studia retorica e dimostra un precocissimo talento poetico, al punto di attirare l'attenzione dello stesso Nerone, di cui diventa amico.

60 d.C.

Lucano partecipa all'agone poetico dei Neronia, ove ottiene uno straordinario successo, mettendo in ombra le qualità poetiche di Nerone. Quest’ultimo vieta a Lucano di pubblicare i suoi scritti. Egli continua tuttavia a lavorare al suo capolavoro, il Bellum Civile, del quale circolavano già i primi tre libri.

65 d.C.

Lucano è accusato di avere preso parte alla congiura di Pisone; arrestato, pare abbia rivelato i nomi di molti congiurati, tra i quali anche la madre Acilia, del tutto estranea al complotto (è questa una notizia che ci riporta Tacito, e che getta un'ombra assai cupa sulla figura del giovane poeta). Ricevuto l'ordine di uccidersi, Lucano sceglie la morte del saggio stoico, e si svena recitando versi del suo poema.


LE OPERE:

 

Delle opere di Lucano si è salvato dalla damnatio memoriae voluta da Nerone solo il Bellum Civile, ed anche questo fortunosamente: fu infatti la moglie di Lucano, Polla Argentaria, a salvare il manoscritto dalla distruzione, contravvenendo agli ordini di Nerone, e ad assicurarne la diffusione clandestina, attraverso le bancarelle, con l'aiuto di Stazio e di Marziale. In breve il Bellum Civile divenne il libro più letto in Roma.

Abbiamo però notizia di altre opere, fra cui una tragedia, Medea, alcuni carmi di argomento vario noti come Silvae, un Catacthonion o Orpheus.

 

 

IL BELLUM CIVILE:

 

Più noto come Pharsalia (a causa del fraintendimento di un verso del libro IX in cui Lucano afferma Pharsalia nostra vivet), è un poema epico-storico in 10 libri, quasi certamente incompiuto, che tratta della seconda guerra civile (dal 49 al 47 a.C.).

 

 

TRAMA:

 

Libro I

 

Proemio e invocazione a Nerone (sulla cui sincerità la critica s’interroga da tempo). Le cause della guerra; ritratto dell'Italia rurale in crisi. Cesare varca il Rubicone e marcia su Roma (49). Presagi di sventura si abbattono sulla città. I vecchi rievocano gli orrori della prima guerra civile, quella fra Mario e Silla.

 

Libro II

 

Bruto si reca nottetempo da Catone Uticense e gli chiede consiglio sul da farsi: il filosofo, che esprime fin troppo scopertamente il punto di vista dello stoicismo, afferma che è dovere del saggio opporsi ad ogni tentativo di conculcare la libertas, sottolineando così la necessità dell’impegno politico contro un regime ingiusto (è l’interpretazione dello stoicismo tipica dell’opposizione senatoria al principato). Pompeo fugge da Roma per evitare inutili spargimenti di sangue.

 

Libro III

 

Il primo sogno di Pompeo (tòpos epico): la sua prima moglie Giulia, figlia di Cesare, ormai morta, giura di perseguitarlo fino alla tomba per vendicarsi del "tradimento" del marito, che ama ormai un’altra donna, Cornelia. È evidente il rovesciamento ironico del precedente virgiliano: anche ad Enea fuggiasco da Troia, alla fine del II libro dell’Eneide, era apparsa la moglie Creusa appena morta, la quale però gli aveva assicurato eterna benevolenza e protezione. Cesare a Roma. Catalogo degli alleati orientali di Pompeo (tòpos epico). Cesare a Marsiglia vince una battaglia navale.

 

 

Libro IV

 

Cesare in Spagna affronta le truppe pompeiane. Aristìa del pompeiano Vulteio e del cesariano Curione (tòpos epico).

 

 

Libro V

 

Cesare e Pompeo in Epiro: preparativi per la battaglia di Durazzo. Appio (pompeiano) consulta l'oracolo di Delfi (tòpos epico), ma il responso è del tutto indecifrabile, a significare ironicamente l’inutilità degli oracoli dal punto di vista stoico. Cesare, irritato per gli indugi di Antonio, decide di attraversare il mare Adriatico in tempesta da solo su una barca a remi: il pescatore Amìclate lo sconsiglia di mettersi in viaggio, ma Cesare parte con lui. È Cesare, questa volta, a riportarci alla figura di Enea, che pure si trova di fronte ad una tempesta nel V libro dell’Eneide: ma mentre Enea, pius, segue il consiglio di Palinuro e rinvia la partenza, Cesare, invece, temerario e superbo, afferma che, se deve morire, cadrà sotto i colpi del solo avversario degno di lui: la Fortuna. Appena egli pronuncia queste parole, la tempesta assume connotati apocalittici: Amìclate scompare, la barca è travolta dai flutti, e tuttavia Cesare si salva e viene riportato al punto di partenza. Questo episodio, del tutto inutile ai fini dello svolgimento della vicenda, ha una particolarissima rilevanza ideologica.

 

Libro VI

 

Battaglia di Durazzo. Aristìa del pompeiano Sceva. Sesto Pompeo, figlio degenere di Pompeo, consulta a Farsalo la maga Erìttone, che dà luogo ad un episodio di necromanzia, evocando un soldato defunto per ottenerne una profezia. È chiaro il rovesciamento antifrastico del precedente virgiliano della catàbasi agli Inferi (VI libro): ad Enea il padre Anchise predice la futura grandezza di Roma, mentre qui il soldato morto predice la fine della libertas repubblicana.

 

Libro VII

 

Nell’imminenza della battaglia di Farsàlo Pompeo ha un nuovo sogno: si vede in teatro di fronte ai Romani che lo applaudono. Il significato profondo di questo sogno è probabilmente che Pompeo, più che un eroe, è un commediante che interpreta un ruolo non suo, affidatogli suo malgrado dal Destino. Al suo risveglio convoca un'assemblea, durante la quale Cicerone incita i soldati alla battaglia (si tratta di un consapevole falso storico). Scoppia la battaglia: quasi subito Pompeo, frastornato e sfiduciato, fugge. Aristìa di Domizio Enobarbo (antenato di Nerone). Terminato lo scontro, Cesare, ebbro di sangue, infierisce sui cadaveri e ne impedisce la sepoltura.

 

Libro VIII

 

Pompeo cerca rifugio in Egitto presso i suoi alleati, i tutori di Tolomeo XIII, che però lo uccidono a tradimento e gli tagliano la testa per consegnarla a Cesare.

 

Libro IX

 

Catone subentra a Pompeo, assume il comando delle truppe repubblicane e si dirige in Africa; qui è costretto ad attraversare il deserto. Descrizione degli orribili patimenti dei soldati e dei serpenti velenosi che infestano la zona. Catone, giunto presso l'oracolo di Zeus Ammone, si rifiuta di consultarlo in nome della razionalità e dell’autàrkeia del saggio stoico. Cesare si reca a Troia, ove medita di trasferire la capitale. Qui si svela chiaramente il ruolo di Cesare: egli è un anti-Enea; Enea infatti voleva far rivivere Troia a Roma, Cesare vuol fare l’esatto contrario. In sostanza egli disfa ciò che ha fatto Enea.

 

Libro X

 

Cesare, giunto ad Alessandria, piange alla vista della testa del genero morto: commento sarcastico del poeta su queste lacrime. Di fronte alla tomba di Alessandro, invece, si commuove sinceramente: del grande macedone egli si sente il legittimo erede. Durante un banchetto si lascia sedurre da Cleopatra, fuggita dalla torre in cui era rinchiusa. Scoppia una rivolta fra gli alessandrini...

 

Reliqua desiderantur.

 


 

IL PROBLEMA DEI RAPPORTI CON NERONE:

 

I critici hanno ritenuto per lo più che nei primi tre libri la posizione di Lucano non sia ancora apertamente ostile a Cesare, il quale invece a partire dal IV (e specialmente nel VII) è ritratto a tinte sempre più fosche. Le vicende cui è legata la composizione del Bellum Civile hanno indotto molti a motivare questo mutato atteggiamento di Lucano nei confronti del suo personaggio (interpretato da alcuni, non senza forzature, come la controfigura storica di Nerone), con il veto di Nerone alla pubblicazione dell'opera, di cui però erano già in circolazione i primi tre libri, i quali dunque non risentirebbero ancora della rottura dei rapporti fra il poeta ed il princeps

Lucano perciò apparirebbe dapprincipio tollerante nei confronti del regime neroniano, mentre dopo i Neronia del 60 il suo atteggiamento diventerebbe apertamente ostile. 

L’ipotesi lascia francamente perplessi: in realtà già nei primi tre libri si avverte l'ostilità di Lucano nei confronti del personaggio.

Quanto ai rapporti con Nerone (a prescindere dall’identificazione con Cesare), fondamentale resta l'interpretazione dell'invocazione proemiale: considerata, alquanto soprendentemente, sincera da buona parte della critica contemporanea (ad es. dal Conte), essa è a tal punto goffa, sovraccarica ed adulatoria da risultare imbarazzante per chiunque abbia un minimo di senso dell'umorismo: in alcuni punti le gaffes sono addirittura clamorose (Lucano auspica l'avvento della pace solo dopo la morte di Nerone, senza contare che sembra fare allusione ad alcuni suoi difetti fisici), tanto che ci sembra assai più condivisibile l'opinione di coloro (ad es. il Lana) che la considerano scopertamente ironica. Quand’anche così non fosse, l’ambiguità è forte ed è legittimo per lo meno dubitare della sincerità del tono.

 

 

LA CONCEZIONE DELL'EPOS:

 

Hegel, nel II libro dell'Estetica, distingue tra "epos primario" ed "epos secondario": l’epos primario (Omero, la Bibbia...) nasce da un'ideologia propria degli albori di una civiltà, in quella che egli identifica con la fase adolescenziale di un popolo: l’epos serve a rinsaldare la coscienza dei valori fondanti su cui si regge una civiltà. Prevede perciò una concezione provvidenziale della storia: la Provvidenza conduce il popolo eletto all'affermazione di sé nella storia. Il popolo eletto è personificato in un eroe, che quindi è espressione della volontà di Dio, è a capo dei "buoni" e sconfigge i "cattivi". L’epos esprime dunque una visione della vita unilaterale e semplificante, che esclude ogni relativismo etico. 

L’epos secondario, che non appartiene agli albori di una civiltà, non riflette appieno questa ideologia: Virgilio, ad esempio, dimostra eccessiva simpatia per i "perdenti" della sua storia (e già non è più uno scontro di "buoni" contro "cattivi"), benché creda nel Fato e nella provvidenza; i poemi mitologici degli alessandrini, poi, bandiscono anche la prospettiva provvidenziale e più in generale la dimensione ideologica dell’epos, recuperandone soltanto la forma, ridotta ad un vuoto contenitore (si vedano le Argonautiche di Apollonio Rodio). Il mito per loro è divenuto mitologia, repertorio di belle favole, non è più sentito come portatore di profondi significati storici o etici.

Secondo Hegel, il Bellum Civile non è né epos primario né epos secondario: non è definibile in base alle categorie note. Lucano infatti, a detta del filosofo, ha inserito forzatamente una tematica tragica in una forma epica: quella che racconta non è una guerra fra popoli nemici; è una guerra civile, fratricida, in cui è impossibile distinguere "buoni" e "cattivi", perché tutti condividono gli stessi valori, come è tipico del conflitto tragico.

Ci si chiede allora perché Lucano non abbia preferito scrivere una tragedia anziché piegare l’epos ad esprimere contenuti ad esso così poco congeniali. 

Occorre a questo punto una più approfondita analisi della questione centrale, intorno alla quale ruotano tutte le altre.

 

 

CHI È L’EROE DEL BELLUM CIVILE?

 

Oggi è di moda sostenere che si tratti di un falso problema ed affermare che la funzione eroica sia semplicemente "disseminata" tra Cesare, Pompeo e Catone: la molteplicità delle figure eroiche sarebbe quindi da leggere nella stessa chiave di quella degli Annales di Ennio, altro poema privo di una figura eroica centrale.

Non è così: il problema è reale, ed è un problema di fondo, che nasce da un equivoco: nell'epos non è la figura dell'eroe in sé ad essere garante di unitarietà, ma la presenza di uno scopo unificante, al quale tendono tutti i rappresentanti del "popolo eletto" ed al quale si oppongono tutti gli antagonisti.

Ora, nell’epos enniano (come del resto nell'Iliade) tutti gli eroi concorrono a realizzare il medesimo scopo, mentre nell’epos lucaneo i tre protagonisti rappresentano linee di forza opposte e mirano a scopi completamente diversi.

Può essere istruttivo, a titolo di semplice esperimento, provare a sintetizzare le caratteristiche tipiche dell’eroe epico (latino in particolare, cioè sottomesso agli dèi ed integrato nella collettività, a differenza di quello greco, assai più individualista) e a metterle in relazione con i tre "eroi" del poema. Ci accorgeremo subito che qualcosa non funziona:

 

L'eroe epico latino:

Cesare

Pompeo

Catone

è il campione del destino

NO

NO

si afferma nella storia

NO

NO

è il rappresentante del popolo eletto

NO

NO

è espressione della collettività, integrato in essa

NO

NO

è sottomesso agli dèi (pius)

NO

NO (crede nel lògos)

gli compete l'atto risolutivo che manda ad effetto i progetti della divinità

NO

NO

Conclusioni:

non è espressione della collettività e gli manca la pietas

gli manca l’appoggio divino (= il successo nella storia)

gli mancano tutte le caratteristiche epiche

 

In particolare: 

Pompeo è controfigura ironica di Enea, come lui pius ed amèchanos (= "privo di mezzi", ovvero privo di capacità decisionale autonoma e totalmente dipendente dal destino). Egli però, a differenza di Enea, ha il Fato contro. È inoltre un personaggio che subisce una profonda evoluzione psicologica: si rende progressivamente conto di non avere l'appoggio degli dèi, e in questo modo arriva alla consapevolezza tragica di essere vittima di una perfida beffa del destino.

Catone è un vero e proprio personaggio tragico, del tutto privo di connotazioni epiche: egli afferma infatti una necessità ideale contro la necessità storica; Lucano stesso condensa epigraficamente questa sua funzione nella celebre formula: victrix causa deis placuit, sed victa Catoni.

Partendo dal presupposto che l'eroe epico è necessariamente colui che si afferma nella storia, l'eroe non può essere che Cesare. Ma, se è così, poiché Cesare combatte contro Roma per un suo tornaconto personale, allora il Fato vuole la fine di Roma.

 

 

CONCLUSIONI:

 

Tornando alla critica hegeliana, non sarà difficile, a questo punto, comprendere perché Lucano non si sia orientato verso la forma tragica. I motivi sono di due ordini diversi:

  1. anzitutto, a detta dello stesso Hegel, la tragedia induce all’immobilismo e paralizza l’azione, per il fatto stesso di presentare la trasgressione come interna alla vicenda drammatica ("tragico tematico") e per di più come perdente. Ne risulta, da parte dell'autore tragico, un atteggiamento di moderazione ("conservatore", lo definisce Hegel), che non è certo quello di Lucano, animato da profondo spirito di rivolta esistenziale, eroe tragico egli stesso della tragedia della vita ("tragico ideologico");

  2. inoltre l’intento di Lucano, evidentissimo, è quello di scardinare il genere epico dal suo interno: inserendo un'ideologia ed un contenuto anti-epici nella forma epica, genere chiuso, rigidamente formalizzato per ideologia, contenuti e stile, Lucano sconquassa e distrugge il genere.

Non si tratta però di un epos generico; Lucano mira ad un bersaglio preciso, chiaramente identificabile: l’epos virgiliano (di qui anche l’ipotesi che il progetto originario prevedesse dodici libri, come l’Eneide). 

Lo scopo è quello di smascherare le mistificazioni ideologiche di cui Virgilio si è fatto portavoce, soprattutto l’idea della "missione storica" di Roma voluta dal Fato per il bene dell’umanità (idea di ascendenza stoica, legata soprattutto alla figura di Panezio).

Non è vero che il Fato ha assegnato a Roma una missione storica da compiere: Cesare ha disfatto l'opera di Enea, la fondazione di Roma come risarcimento per la fine di Troia è vuota retorica (Cesare avrebbe voluto riportare la capitale a Troia!), il sangue versato in nome della grandezza dell'Urbe non ha avuto alcuno scopo: il significato di Roma è una tragica tautologia.

Se ne conclude che, se tutto questo è voluto dal destino, il destino è malvagio. Oppure non esiste alcun disegno provvidenziale: tutto è in balìa del caso.

Dal pessimismo storico Lucano sembra dunque elevarsi al pessimismo cosmico, rinnegando completamente i presupposti ottimistici tipici dello stoicismo.

 

È questo un epos alla rovescia, un epos della storia negativa, dell'ideale che non si afferma nella storia: un epos antifrastico, che ribalta e sconfessa tutti i presupposti ideologici virgiliani.

Lucano si pone a tutti gli effetti come l’anti-Virgilio.

 


LO STILE:

La disorganicità dei punti di vista ideologici presenti nell'opera si riflette anche sullo stile, causando quelli che sono stati da sempre rimproverati a Lucano come "difetti" del suo poema: il suo stile risulta infatti urtante e spesso sgradevole, sempre eccessivo, costantemente "sopra le righe". Non si ha mai un'impressione di naturalezza; il tono appare (volutamente?) inadeguato alla situazione, come se il tutto fosse interpretato da un attore che "vuol fare vedere che recita", secondo i princìpi dello straniamento brechtiano.

Nello scarso interesse di Lucano per l'organicità dell'insieme avrà certo giocato un ruolo importante l'abitudine alle recitationes, come alcuni sostengono; a ben guardare, però, l'interpretazione è banalizzante: in realtà si tratta di una conseguenza inevitabile dell'avere scelto protagonisti che mirano a scopi opposti ed in sé autonomamente validi; in un questo senso, anzi, la forma è perfettamente coerente con il contenuto: risente della stessa forza centrifuga.

Oltre a questo difetto di organicità, al poeta è stato spesso rimproverato l’utilizzo di uno stile contorto, involuto, grondante di artifici retorici (Quintiliano lo definisce magis oratoribus quam poetis imitandus).

Anche in questo caso si tratta di un difetto inevitabile, se solo si considera che Lucano è costretto a piegare l’epos ad una finalità opposta a quella per la quale esso è nato.

Infatti, se è vero che l’epos è nato per esaltare l'affermazione del popolo eletto nella storia, è evidente che il miglior modo per esaltarne la vittoria è quello di lasciar parlare i fatti. Non c'è bisogno di commento: la sua vittoria è la nostra vittoria; è dato per scontato che noi ci identifichiamo con il popolo eletto, come nel western dei tempi d'oro - l'epos dei bianchi d'America - è scontato che lo spettatore stia dalla parte dei cow-boys (cioè degli oppressori). Se Dio è il garante della storia, come è dato per presupposto da questo orientamento ideologico ingenuo ed acritico, allora chi vince ha sempre ragione. Ecco perché nell'epos sono i fatti a giudicare: come dice Hegel, il giudizio avviene in rebus ipsis

Lucano invece è costretto a far dire ai fatti l’esatto contrario di quello che dicono, ossia che alla vittoria nella storia non è da connettere alcuna valutazione moralmente positiva. 

Se dunque nell’epos tradizionale sono i fatti a giudicare, in Lucano è lo stile che diventa giudicante rispetto ai fatti e rispetto al genere stesso, smascherando la mistificazione ideologica sottesa ad esso, per lasciar emergere un messaggio che in sintesi è questo: l'ideologia epica non è né "giusta" né l'unica possibile, come l'epos vuol far credere: è semplicemente quella del vincitore.

A questo fine Lucano utilizza un imponente bagaglio di colores retorici, tratti per lo più dalla retorica asiana:

  • elimina il medium della finzione narrativa ed esprime spesso il suo commento, rivolgendosi direttamente al lettore con apostrofi o invettive;

  • mantiene costantemente un intenso patetismo (cfr. Ennio e Seneca Tragico), il cosiddetto pathos continuum, che si coniuga con un insolito gusto del macabro;

  • utilizza antitesi, ossimori, iperboli;

  • ricorre spesso a paradossi e concettismi: in questo senso si è parlato di "barocchismo" dello stile lucaneo. Il concettismo è l'unico color possibile in situazioni in cui il pathos è la norma; esso è un'ironia intellettualistica che consiste nel fingere di accordare plausibilità logica a qualcosa che ne è del tutto privo, in questo caso la logica stravolta della guerra;

  • inserisce spesso sententiae lapidarie di un solo verso, che spezzano bruscamente il flusso continuo della versificazione, ricchissima di enjambements, che connotano il fluire ininterrotto delle emozioni;

  • ricorre con insistenza all’allitterazione ed a figure di suono.


 

LA FORTUNA:

 

Come si accennava in precedenza, quando la moglie di Lucano, Polla Argentaria, garantì la diffusione del Bellum Civile per via clandestina, l'opera incontrò subito un grande favore fra il pubblico.

Anche nel Medioevo Lucano fu molto amato: Dante lo colloca nel Limbo fra i cinque grandi ingegni poetici dell’antichità.

La sua fortuna perdura nel '400, nel '500, nel '600, influenzando il teatro elisabettiano, fino al '700 (Alfieri, Goethe) ed ancora al Leopardi. In seguito Lucano fu quasi dimenticato: il Romanticismo ed il post-Romanticismo hanno portato al rifiuto preconcetto di tutto ciò che "sa di retorica": e Lucano, ad un lettore disattento, può ben sembrare poco più di un retore.

Solo in questi ultimi anni è iniziata, almeno nel mondo della filologia classica (Conte, Narducci), una lenta e faticosa rivalutazione della figura di questo poeta difficile e sfuggente, ma certo interessante e - quanto meno - tutt'altro che banale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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