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Lo Stoicismo  

A differenza del pensiero di Epicuro, che rimase sostanzialmente immutato attraverso i secoli, considerato come un Verbo inalterabile nella sua perfezione (grazie anche all'alone di leggenda che circondava il Maestro), lo Stoicismo subì una complessa evoluzione dalle origini al periodo imperiale, tanto che si sogliono distinguere, nel suo ambito, tre fasi ben differenziate:

 

Prima Stoà

(IV-III sec. a.C.)

Zenone

Cleante

Crisippo

Seconda Stoà

o Stoà di Mezzo

(II-I sec. a.C.)

Panezio

Posidonio

Terza Stoà

(I-II sec. d.C.)

Seneca

Epittèto

Marc'Aurelio

 

 

 

 

La Prima Stoà

Premessa

E’ facile incorrere nell’equivoco di ritenere che il pensiero dei rappresentanti della "prima Stoà" sia sostanzialmente omogeneo e che le principali differenze si determinino nel passaggio alle fasi successive: al contrario, sembra di poter affermare, in base alle testimonianze superstiti, che una delle svolte più significative si sia verificata proprio nel passaggio dal primo al secondo scolarca, cioè da Zenone al suo allievo Cleante. 

Semplificando e generalizzando per esigenze di sintesi, si può affermare che lo Stoicismo, così come era stato impostato da Zenone, riservava un'attenzione preminente alla logica, mentre Cleante trasferisce tutto il discorso zenoniano sul piano ontologico (= dell'essere). 

Non è dato conoscere i motivi di questo radicale mutamento: forse una scelta consapevole, forse un fraintendimento del pensiero del Maestro, che i maligni attribuiscono alla non eccessiva perspicacia riconosciuta dalle fonti antiche a Cleante, sul cui passato di ex-pugile si è fatta molta ironia (cfr. ad es. Diogene Laerzio 7. 170). Tale ironia appare abbastanza gratuita, se si pensa che, quali che siano state le ragioni di questa svolta, storicamente l'impostazione di Cleante risultò vincente: paradossalmente, infatti, fu il suo pensiero, non quello di Zenone, ad imporsi, soprattutto in Roma, ed il fortissimo condizionamento esercitato dal pensiero stoico sull'evoluzione della civiltà occidentale, incluso il Cristianesimo, è da attribuirsi in massima parte alla sua interpretazione (o al suo fraintendimento) delle teorie zenoniane. 

 

Zenone di Cizio (da non confondere con Zenone di Elea), commerciante cipriota, giunse ad Atene in seguito ad un naufragio che causò la sua rovina economica; qui scoprì la filosofia e la sua vita subì una svolta radicale. Nel 301 (cinque anni dopo Epicuro) aprì la sua scuola in un edificio dotato di un magnifico portico affrescato dal pittore Polignòto: la Stoà poikìle (= portico dipinto), da cui deriva il nome della scuola stessa.

Del tutto preminente, nel pensiero di Zenone, sembra essere stato, come si diceva, il momento logico; a tale proposito egli soleva servirsi di un curioso paragone, secondo il quale la fisica e l'etica sono contenute nella logica "come il tuorlo e la chiara entro il guscio" dell'uovo (cfr. Diogene Laerzio 7. 40). Il problema centrale della logica zenoniana è quello della predicazione del reale (e, prima ancora, della sua predicabilità): ovvero, anzitutto, il problema della comunicazione logico-linguistica in sé, e poi della corrispondenza fra le strutture del reale ed i princìpi logici in base ai quali l'uomo cerca di esprimerle. 

Si tratta di due problemi ben distinti: infatti, il pensiero dev’essere anzitutto formulato in modo logicamente corretto, per poter avere validità in sé; ma, anche ammesso che abbia tale validità (ossia che le conclusioni risultino logicamente coerenti con le premesse), quale garanzia può avere l'uomo che le premesse poste (e, di conseguenza, le conclusioni tratte) abbiano una effettiva corrispondenza con il reale?

Dagli scarsi frammenti rimasti sembra che Zenone ritenesse di poter risolvere il primo problema costruendo (a partire soprattutto dal sillogismo aristotelico) un imponente e complesso edificio logico, ma considerasse irrisolvibile il problema delle premesse o presupposti della comunicazione logico-linguistica. Per fare un esempio banale, potremmo articolare un ragionamento perfettamente coerente, e dunque logicamente vero, a partire da un asino che vola: tuttavia tale costruzione logica non avrebbe alcuna rispondenza nel reale, per via del presupposto scelto, in sé difettoso.

Ora, l’uomo si trova nella condizione di non poter prescindere dal suo stesso pensiero per pensare il reale: come può dunque sapere se i presupposti del suo pensiero, da lui pensati come veri, siano effettivamente tali?

Zenone giungeva a concludere, sostanzialmente, che la sola verità possibile per l'uomo è quella che deriva da un ragionamento articolato in maniera corretta (i princìpi di questo retto ragionare erano oggetto di una trattazione sistematica ed assai approfondita), ma che tale verità rimane su un piano puramente logico, senza che si possa sapere se abbia un effettivo rapporto con la realtà: la quale, inevitabilmente, nella sua essenza ci sfugge.

In definitiva, anche quando crede di pensare la realtà esterna, il pensiero pensa sempre se stesso.

La nostra unica certezza riguarda noi stessi, e più precisamente il nostro pensare, dal momento che la logica non può cogliere altro che realtà di natura logica: infatti possiamo predicare di noi con certezza che siamo pensanti; ora, solo ciò di cui è possibile predicare una qualche qualità, esiste, ovvero è reale: dunque noi, in quanto siamo esseri forniti di una qualità, la razionalità, esistiamo, siamo reali.

Invece del mondo esterno non siamo in grado di predicare nulla con certezza; ciò che rimane nell’ambito dell’indistinta quantità, ciò di cui non è possibile predicare una qualità, non esiste: possiamo dire soltanto che è. Dunque l'inconoscibile universo che ci circonda è, ma non esiste (= non è reale).

E' evidente che, in questa prospettiva, i termini "vero" e "falso" sono usati in un'accezione completamente diversa da quella usuale: "vero" non significa "corrispondente al reale" (appunto perché noi non possiamo sapere nulla del reale), bensì "coerente con determinate premesse logiche". Tale verità non consiste dunque mai in un singolo concetto a sé stante, ma emerge dalla connessione fra diversi concetti articolati in un ragionamento, ovvero in un discorso: ecco perché si parla, per gli Stoici, di logica discorsiva. In base a questi presupposti, come si diceva, è possibile costruire un ragionamento perfettamente logico, e dunque assolutamente vero, anche partendo da premesse false (ove per "false" s'intende prive di riscontro nella cosiddetta realtà), come l’asino volante di cui sopra. La moderna "filosofia del linguaggio" è largamente debitrice di queste teorie zenoniane. 

 

Allorché Cleante, da ex-pugile divenuto discepolo devotissimo di Zenone, subentrò al Maestro, questo mirabile edificio logico subì una radicale ristrutturazione.

L'equivoco in cui, a detta dei più, sembra essere incorso Cleante, nasce probabilmente dal fraintendimento dei due termini di cui Zenone si serve per spiegare il meccanismo del pensiero: esso comporta, infatti, l'esistenza di un heghemonikòn ("egemonico", cioè "attività-guida" dell'anima), ovvero un principio pensante, attivo, e di un hypàrchon (il "dato", il "fatto"), ovvero un oggetto pensato, un principio passivo: dalla "tensione" (tònos) fra queste due realtà nasce il pensiero. Ma (ed in questo consiste, probabilmente, il fraintendimento) quando Zenone parla di hypàrchon, non allude, come pare avere inteso Cleante, ad un oggetto reale, bensì ancora ad un referente tutto e solo mentale, fermo restando che è impossibile sapere se esso abbia o non abbia effettivo riscontro nella realtà oggettiva. 

Ma è davvero plausibile che il secondo caposcuola sia incorso in un così grossolano travisamento del pensiero zenoniano? E' lecito dubitarne.

Esiste infatti un brano, riportato da Sesto Empirico e da lui espressamente attribuito a Zenone, che anticipa chiaramente le posizioni di Cleante e permette di comprendere attraverso quale processo Cleante potrebbe essere giunto a trasferire sul piano ontologico le premesse logiche del primo pensatore stoico.

Tale brano dice testualmente: 

"Ciò che è privo di sentimento e di ragione non può produrre da sé un essere vivente fornito di ragione; dunque l'universo [in quanto ha generato l'uomo, N.d.R.] è un essere vivente fornito di ragione. [...] Ciò che emette dal proprio corpo il seme dell'essere razionale è razionale anch'esso; ma l'universo emette da sé il seme del razionale: dunque l'universo è razionale. E ciò implica la dimostrazione della sua esistenza." (Adv. Math. 9. 85-110)

In altre parole: se l'uomo esiste in quanto è predicabile di lui almeno una qualità (è razionale), allora anche l'universo esiste: di esso, infatti, come dell'uomo, è predicabile almeno una qualità: è razionale, perché ha prodotto quell'essere razionale che è l'uomo. Dunque l'universo, in quanto razionale, è reale (e viceversa: è reale in quanto razionale).

La sua razionalità non può poi essere diversa da quella dell'uomo, che esso stesso ha generato: dunque, ciò che si applica all'uomo si può applicare anche all'universo, in quanto appunto essere razionale.

Parrebbe dunque di intravedere una svolta importante già nel pensiero zenoniano, se l'attribuzione di Sesto Empirico è esatta. Questa premessa sarebbe stata semplicemente sviluppata e portata alle estreme conseguenze da Cleante: infatti, proprio la razionalità dell'universo consente di identificare il piano logico con quello ontologico: se esso esiste in quanto è razionale, i due piani finiscono per sovrapporsi e coincidere (si veda a tale proposito il paragrafo successivo, "Il pensiero stoico").

Come si vedrà, questo mutamento di rotta impresso da Cleante è foriero di conseguenze di enorme rilievo: basti pensare alla traduzione dello zenonismo in termini teologici (ne è importantissima testimonianza il celebre Inno a Zeus composto da Cleante stesso).

 

Il successivo scolarca, Crisippo, svolse un ruolo importantissimo nel difendere le teorie stoiche dai violenti attacchi che gli avversari (soprattutto l'accademico Arcesilào) avevano rivolto contro le aporìe concettuali implicite nella costruzione filosofica del suo predecessore, tanto da guadagnarsi il soprannome di "puntello del Portico"; tuttavia, a quanto sembra, non apportò alcuna significativa modifica al sistema costruito da Cleante. Di fatto, quale che ne sia la genesi, esso non verrà più rimesso in discussione.

Sarà dunque opportuno, semplificando al massimo, delineare i tratti salienti dello Stoicismo così come essi si sono fissati da Cleante in poi, rimanendo sostanzialmente immutati nei secoli a venire, eccezion fatta per qualche specifica precisazione o correzione di rotta operata soprattutto dagli esponenti della "Seconda Stoà".

 

Il pensiero stoico

Concetto-chiave dello Stoicismo è il lògos (= ragione).

Come abbiamo visto, nel meccanismo del pensiero umano si riconosce un principio attivo (tò heghemonikòn) ed un principio passivo (tò hypàrchon), legati in inscindibile unità perché esplicantisi simultaneamente (= non si dà pensiero senza un oggetto pensato, né oggetto pensato senza chi lo pensi). Analogamente l'universo, poiché è razionale, pensa, e non può che pensare se stesso, perché non esiste altro: dovrà dunque possedere necessariamente un principio pensante (attivo), chiamato lògos o ragione, ed un principio pensato (passivo), la hyle o materia, che è ancora e sempre l'universo in quanto oggetto del proprio stesso pensiero: essi sono inseparabili, così come (dice Cleante) nel fuoco sono inseparabili l'energia e la materia.

L'esempio del fuoco (pyr) è tutt'altro che casuale: infatti Cleante definisce il principio attivo dell'universo lògos-pyr, ad indicare che questo principio vitale è in sostanza energia pensante (potremmo dire energia termica, vista la definizione di pyr). Essa è ciò che gli uomini chiamano Dio. Inoltre, poiché s'è detto che il lògos è inscindibile dalla materia, ciò significa che non si tratta di una realtà trascendente: Dio è immanente alla materia. Anche ciò che chiamiamo materia altro non è che energia materializzatasi: dunque, essendo l'intero universo permeato dal lògos, che è Dio, l'universo è Dio, è una immensa creatura pensante, con una sua volontà ed un suo scopo da perseguire.

E' da sottolineare che l'universo (tò hòlon) non è il tutto (tò pàn): quest'ultimo, infatti, comprende anche il vuoto. L'universo è finito, il tutto è infinito.

Se Dio è in tutto l’universo, ne consegue che l'intera esistenza dell'universo non può che essere concepita da Cleante e dagli Stoici successivi in chiave teleologica (= finalistica), poiché l'intelligenza divina immanente al tutto non può agire a caso, ma persegue certamente uno scopo; si tratta di un’impostazione diametralmente opposta a quella di Epicuro.

Inevitabile è dunque la preminenza riservata da Cleante in poi alla fisica, in quanto implicante anche una visione teologica dell’universo, con conseguente subordinazione ad essa della logica (il che comporta un totale ribaltamento dell'ottica zenoniana) e dell'etica.

Il fatto che, per converso, nei secoli successivi si sia riservata particolare attenzione all'etica (come già era avvenuto per le teorie epicuree) è da imputare in larga misura alla mediazione dei Romani, ai quali l'etica stoica offre una efficace giustificazione teorica dell’imperialismo come missione pacificatrice universale, e in generale della necessità dell'impegno politico, fino a diventare il fondamento dell'opposizione al principato durante la dinastia giulio-claudia; fu soprattutto Seneca a contribuire a questo mutamento di prospettive in favore dell’etica.

 

Fisica 

In principio era l'energia (lògos-pyr) che pensava se stessa sotto forma di materia (hyle): la tensione (tònos) fra questi due princìpi provocò una immane esplosione, da cui ebbe origine l'universo (tò hòlon). 

Esso segue un suo ciclo, scandito secondo un ordine necessario e provvidenziale e destinato a concludersi con una sorta di immane implosione o conflagrazione universale (ekpýrosis), alla quale farà seguito una serie di altri cicli del tutto identici (teoria dell'eterno ritorno).

Poiché, come s'è detto, il lògos è Dio, ed è immanente alla materia, nulla accade per caso, ma secondo un ordine prestabilito dalla prònoia o provvidenza divina; sul versante umano, noi la viviamo come heimarmène (= fato, necessità). Si tratta però dei due volti di una stessa realtà: in sostanza tutto avviene esattamente come deve avvenire.

Anche gli esseri apparentemente inanimati contengono in sé il lògos, ma, per così dire, in percentuale inferiore rispetto agli esseri animati: gli Stoici parlano infatti di lògoi spermatikòi, ovvero "semi di lògos" contenuti nella materia, da cui tutte le creature hanno origine. Parrebbe di intendere che il processo di materializzazione dell’energia cosmica originaria non si sia compiuto in modo omogeneo, per cui in alcuni corpi è presente più materia che energia, in altri invece più energia che materia, in altri le due componenti sono più o meno in equilibrio.

Fra tutti gli esseri, quello che contiene in sé la maggiore quantità di lògos nella forma originaria, ossia sotto forma di energia pensante, è, secondo ogni evidenza, l'uomo: se ne conclude che, poiché nulla accade per caso, l'uomo è lo scopo della creazione ed il re del creato: un concetto che, come molti dello Stoicismo, si è prepotentemente affermato nella civiltà occidentale, penetrando anche nel Cristianesimo.

 

Logica (gnoseologia)

L'uomo, in quanto particolarmente dotato di lògos, dispone dei mezzi per comprendere la verità.

Essi sono anzitutto due:

àisthesis (= sensazione): essa è l'impronta, il calco (týposis) che gli oggetti producono sui sensi;

fantasìa (= rappresentazione): è "un'impressione nell'anima", ovvero l'immagine che la mente elabora in base alla sensazione.

La rappresentazione non è né vera né falsa: è quella che è. Di conseguenza non è solo su questa base che possiamo comprendere la verità. Deve intervenire, ancora e sempre, il lògos, che, se l'impressione è del tutto evidente, dà il suo assenso alla rappresentazione, determinando così la fantasia catalettica (= afferrante).

Solo quest'ultima è in grado di dar luogo ad una rappresentazione oggettiva (fàntasma), ossia di cogliere in modo veritiero l'hypàrchon, che, come si diceva, per Zenone è ancora e sempre una realtà mentale (un concetto, diremmo noi), mentre per Cleante e i suoi successori si identifica con l'oggetto vero e proprio, tò òn.

Questa parte del sistema stoico fu oggetto di aspre contestazioni da parte di numerosi pensatori contemporanei e successivi: non si vede, infatti, sulla base di che cosa il lògos possa negare l'assenso ad una rappresentazione falsa ma perfettamente evidente, oppure dare l’assenso ad una rappresentazione vera ma per nulla evidente.

Inoltre, nella concezione di Cleante, è impossibile spiegare che cosa siano esattamente l'hypàrchon e la fantasia catalettica senza cadere in vuote tautologie: poiché, infatti, si dice dell'hypàrchon che "è ciò che muove la fantasia catalettica", e della fantasia catalettica che "è quella che sorge dall'hypàrchon", è evidente che si cade in una diallèle (= circolo vizioso), come fa rilevare Sesto Empirico (Pirr. Ipot. 3. 242).

 

Etica

Come per Epicuro, anche per gli Stoici lo scopo dell'etica è pratico anziché teoretico: la ricerca della felicità (eudaimonìa).

Un'altra analogia (apparente) con il pensiero epicureo consiste nel principio stesso con cui si identifica la felicità: "vivere secondo natura". Ma si tratta, come si diceva, di un'analogia fallace: infatti, poiché per gli Stoici la natura è tutt'uno con il lògos, "vivere secondo natura" significa "vivere secondo il lògos", cioè secondo ragione.

Il Male, in sé, non esiste: esso non è altro che privazione di Bene. Né, d'altronde, potrebbe esistere: non si è postulato, nella fisica, che il lògos è tutto ed è dappertutto? Dunque non c'è spazio per il Male: la prospettiva stoica è rigorosamente monistica (da mònos = "uno") ed esclude qualsiasi dualismo. Ne consegue che questo è il migliore dei mondi possibili.

Il lògos è dunque criterio del Bene: Bene è ciò che si identifica con il lògos, Male è ciò che si oppone al lògos, ossia essenzialmente la componente emotiva e irrazionale dell'animo umano (i pàthe).

Ma, si potrebbe obiettare, se il Male non esiste, perché l'uomo qualifica come "mali" le realtà spiacevoli?

Si tratta, secondo gli stoici, di un errore di giudizio: quando la mente umana formula un giudizio del genere, è evidente che non ha "afferrato" con esattezza l'oggetto del pensiero: per dirla in termini gnoseologici (cfr. sopra), l'assenso del lògos è stato dato a sproposito (ovvero, tecnicamente parlando, la fantasia non è catalettica).

Il Bene e il Male (inteso come assenza di Bene) sono dunque tali in senso assoluto. Tutto ciò che non è né Bene né Male, ovvero non serve al perfezionamento razionale né lo ostacola (la salute fisica, la morte, la ricchezza o la povertà, il potere...), è indifferente: esso fa parte dei cosiddetti adiàfora (= cose indifferenti).

Questi princìpi etici, nonostante il loro straordinario successo (soprattutto in ambito romano), sono stati oggetto, fin dall'antichità, di pesanti critiche, in quanto non immuni da vistose aporìe (= contraddizioni logiche) rispetto ai postulati della fisica. Per esempio, se il lògos è principio puramente razionale, permea di sé tutta la materia ed è inseparabile da essa (si veda l'esempio del fuoco), come può esso, in sede di etica, essere concepito come qualcosa di opposto alla componente corporea-appetitiva dell'uomo? Da che cosa deriverebbe, infatti, la tendenza della materia ad opporsi al lògos, non esistendo alcun principio alternativo al lògos? O il lògos si oppone a se stesso?

Inoltre la teoria degli adiàfora incontrò opposizioni già all'interno della "seconda Stoà": il Bene così concepito, infatti, è al di fuori della portata dell'uomo comune; esso rimane appannaggio pressoché esclusivo del saggio stoico (il sapiens vagheggiato da Seneca), figura quasi disumana: insensibile ai pàthe, non toccato dalle avversità esterne (né, d'altronde, dalle situazioni favorevoli), egli è in sostanza il solo in grado di possedere le qualità in cui consiste la virtù per gli Stoici: l'autàrkeia (= autosufficienza), cioè la mancanza di qualsiasi dipendenza dal mondo esterno, e l'apàtheia (= assenza di emozioni), cioè la mancanza di qualsiasi dipendenza da se stessi, dalla propria componente irrazionale: qualità in cui consiste, come ben si vede, la vera libertà, che è sempre e solo interiore.

Questo è quanto dire che solo al saggio stoico compete l'esercizio del libero arbitrio.

Ma questa specie di automa, di super-uomo, può costituire un modello credibile per le persone normali? Perfino Panezio, il caposcuola della "seconda Stoà", è convinto del contrario: per questo, come si vedrà, egli apporterà notevoli modifiche alla teoria degli adiàfora, rinunciando all'assolutezza della definizione e distinguendo nel loro ambito tra "cose preferibili" e "cose non preferibili", ed in sede di etica tra azioni "convenienti" (kathèkonta) e azioni "non convenienti". Non è sempre vero, infatti, che gli adiàfora non influiscano sulla razionalità umana: ad esempio una malattia, se compromette le funzioni cerebrali, inibisce o impedisce del tutto l'esercizio della razionalità; di conseguenza, seppure la salute non sia un Bene in assoluto, è certo "preferibile" alla malattia.

In Roma avrà una notevolissima importanza soprattutto la teoria dei kathèkonta (i latini officia), che costituirà la base ideale dell’educazione etico-politica del ceto dirigente, soprattutto a partire dal ciceroniano De officiis, che altro non è che la traduzione del trattato Perì tù kathèkontos di Panezio. 

Circa il fatto, poi, che il sapiens disponga del libero arbitrio, molti critici non hanno mancato di fare osservare come, a rigore di logica, il libero arbitrio in prospettiva stoica non esista: infatti l'idea stessa del libero arbitrio è aporetica rispetto al concetto di Fato e di predeterminazione. Se tutto è pervaso dal lògos, che dirige gli avvenimenti secondo un fine prestabilito, allora tutto accade secondo una rigida necessità, che esclude qualsiasi libertà di scelta.

Poiché inoltre contrastare il corso prestabilito degli avvenimenti è impossibile, è sommamente stolto porre in atto qualsiasi forma di opposizione (anche politica): la sola libertà consiste nell'accettare il Fato così com'è. Appare quindi intimamente contraddittoria, da parte dell'opposizione senatoria al principato, la scelta della filosofia stoica come bandiera ideologica.

Né si comprende che senso abbia la giustificazione razionale del suicidio tipica dello Stoicismo (cfr. Seneca): infatti, se tutto va come deve andare, non può esistere alcuna motivazione "razionale" per togliersi la vita.

Fu Crisippo a rendersi conto per primo della necessità di risolvere queste aporìe; il suo intervento si risolse in un temporaneo (e parziale) successo: in sostanza egli operò una distinzione tra "cause primarie" (i princìpi fissi ed immutabili su cui si regge l'universo, sui quali l'uomo non può intervenire) e "cause secondarie" (meno importanti, modificabili dall'uomo).

 

La Seconda Stoà

(sintesi)

Panezio di Rodi (II sec. a.C.- fa parte del "circolo degli Scipioni"):

- elimina la conflagrazione universale e il "ritorno ciclico", postulando l'eternità dell'universo; di conseguenza:

- il suo pensiero prevede una minore subordinazione dell’uomo al destino e lascia maggiore spazio al libero arbitrio;

- opera una distinzione fra anima irrazionale, vegetativa e razionale; ne conseguono:

- minore assolutezza etica: l'anima umana non è lògos puro; essa perciò è imperfetta, ma deve tendere alla virtù, che è razionalità. La nuova regola è: "vivi secondo la tua natura", nel rispetto cioè delle diversità individuali;

- meno disumanità nella figura del sapiente e senso di collaborazione filantropica fra tutti gli uomini;

- ripudio degli adiàfora ed introduzione del concetto di "azione più o meno conveniente";

- grande importanza del concetto di dovere (kathèkon, da cui il titolo dell'opera più famosa di Panezio, Perì tù kathèkontos, tradotto da Cicerone con De officiis); tale concetto costituirà il fondamento dell'etica del ceto dirigente romano;

- è un teorico del cosmopolitismo: il mondo è la patria comune di tutti;

- sul piano politico è importantissimo perché teorizza la pacificazione universale come senso profondo della missione storica di Roma (giustificazione teorica dell'imperialismo romano).

 

Posidonio di Apamea (II-I sec. a.C.): 

- secondo gli antichi, fu il maggior pensatore universale dopo Aristotele; la sua opera è però inspiegabilmente perduta; fu anche grande scienziato e storico (suoi i 52 libri della Storia dopo Polibio, anch'essi perduti);

- come filosofo della storia teorizzò l'esistenza di un progetto di fratellanza universale e di progresso perseguito dal lògos nella storia, di cui Roma è mezzo privilegiato (non fine);

- concepisce l'universo come un unico organismo vivente, in cui ogni parte è in rapporto di corrispondenza con tutte le altre (sympàtheia universale);

- le opposizioni del mondo fenomenico sono a priori conciliate nella superiore armonia universale; quindi:

- l'unità ha in sé la molteplicità; alla stessa stregua:

- l'anima universale ha in sé molteplici anime individuali; così pure:

- il lògos, pur essendo uno solo, contiene in sé numerose potenze divine intermedie;

- l'anima umana partecipa del lògos ma anche del corpo, per cui possiede istinti e passioni che non provengono dal lògos; compito del saggio è quello di regolarle secondo il lògos.

 

La Terza Stoà

(sintesi)

 

Seneca (I sec. d.C.): cfr. l'apposita scheda; qui basti ricordare che:

guarda al pensiero della Prima Stoà, piuttosto che della Seconda; pone l'accento esclusivamente sull'etica, senza apportare alcuna significativa modifica al pensiero dei suoi predecessori; si nota tuttavia in lui una certa tendenza all'eclettismo, con caute aperture persino all'etica epicurea.

 

Epittèto di Ieràpoli in Frigia (I-II sec. d.C.):

- di condizione servile, poi affrancato, non scrisse nulla; lo conosciamo grazie ad Arriano di Nicomedìa (lo storico di Alessandro), che ci riporta 8 libri di sue Diàtribe (in tutto 95, di impianto formale cinico) e il cosiddetto Manuale con le sue massime;

- risente del cinismo;

- ritorna, come Seneca, all'etica dell'antica Stoà;

- non apporta elementi originali al pensiero stoico: il fascino della sua personalità, che gli antichi consideravano straordinariamente carismatica, risiede nella profonda serenità del suo atteggiamento e nel suo sincero filantropismo, dovuti ad un afflato religioso particolarmente intenso, che gli fa concepire tutti gli uomini come fratelli, figli di un unico Dio (il Lògos), abitanti di un'unica patria universale.

 

Marc'Aurelio (II sec. d.C.):

- imperatore romano, fu al potere dal 161 al 180 (data della sua morte, avvenuta durante una campagna militare in Pannonia);

- tenne una sorta di diario intimo in lingua greca, che, raccolto in 8 libri, va sotto il nome di Eis heautòn (= "A se stesso", tradotto talvolta con "Ricordi" o "Pensieri");

- anch'egli si occupa solo di etica ed è animato da un profondo spirito religioso e filantropico;

- in lui, però, l'ottimismo che dovrebbe caratterizzare la riflessione stoica cede il passo ad un'angosciata riflessione sulla caducità delle cose umane, travolte dal perenne divenire che è legge della materia (pànta rhèi, concetto eracliteo);

- è ossessionato dal pensiero della morte, anch'essa parte di questo divenire, e si aggrappa alla filosofia per liberarsi dal tormento delle sue inquietudini;

- concepisce il potere supremo come un servizio nei confronti dei suoi figli-fratelli (tali sono infatti per lui i suoi sudditi), ma nel contempo si sente profondamente oppresso dall'enorme responsabilità che ne consegue.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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