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(Aquino, 50-60 d.C. - ? dopo il 127 d.C.)

Lo si accosta per consuetudine a Persio, nonostante il divario cronologico che li separa.

I motivi di questo canonico accostamento sono i seguenti:

- entrambi manifestano l'intenzione programmatica di ricollegarsi alla tradizione della satira latina di Lucilio (più che di Orazio);

- entrambi rivestono il ruolo del poeta censore del vizio e dei costumi ed utilizzano le forme ed i toni dell'invettiva: la satira non è più il sorriso condiviso tra poeta e lettore sulle comuni miserie dell'umanità, ma il grido di sdegno del maestro di morale che addita ex cathedra i comportamenti negativi; essi dunque recuperano il rigorismo cinico-stoico, un atteggiamento etico profondamente inviso ad Orazio;

- dal punto di vista dello stile, condividono entrambi il manierismo anticlassico che emerge come reazione al classicismo di regime, rispettivamente augusteo (Persio) e flaviano (Giovenale). La destinazione dei loro scritti è ormai esclusivamente la recitatio, e gli espedienti retorici utilizzati sono studiati e diretti a questo fine;

- sono inoltre sorprendentemente accomunati dalla cronologia relativa alla tematica che trattano: Giovenale scrive dell'età di Persio (quella giulio-claudia), pur vivendo diversi decenni dopo: nella satira 1° afferma infatti polemicamente che parlerà dei morti, non perché i vivi siano meno corrotti, ma perché i defunti non sono in grado di vendicarsi.

 

E' soprattutto quest'ultima coincidenza a dare l'impressione di una loro contemporaneità.

 

Le fonti: cenni autobiografici, epigrammi di Marziale, biografie di età tarda (poco attendibili).

 

La vita:   Decimo Giunio Giovenale nasce ad Aquino nel decennio 50-60 d.C. da una famiglia benestante. Riceve una buona educazione retorica e rivela ben presto scarso interesse per la filosofia. In seguito esercita (forse) l'avvocatura, ma con poco successo. Dopo la morte di Domiziano (96 d.C.) si dà all'attività poetica, vivendo da cliens come il suo amico Marziale. Muore dopo il 127 (termine post quem ricavabile dal riferimento ad un fatto accaduto sotto il consolato di Iunco del 127), ma non conosciamo la data precisa. Probabilmente falsa è la notizia di un suo trasferimento in Egitto all'età di 80 anni: l'imperatore Adriano lo avrebbe così allontanato da Roma, con il pretesto di un incarico militare, per punirlo di alcuni versi offensivi nei confronti di un suo protetto (forse il bellissimo Antìnoo, amante dell'imperatore). Emerge tuttavia dalla satira XV vv. 43-45 una conoscenza diretta dell’Egitto: "… per la corruzione dei costumi, come io stesso ho constatato, quel popolo barbaro non è inferiore alla famigerata Canopo".

 

L'opera: comprende 16 satire in esametri, suddivise in 5 libri (probabilmente da Giovenale stesso), databili fra il 100 ed il 127 d.C.

 

Libro 1°:

 

Satira 1°: espone il "programma" di Giovenale: la sua satira si oppone alle vacue declamationes alla moda e la sua Musa ispiratrice è la dilagante corruzione morale: di fronte allo spettacolo del vizio assunto a sistema di vita, infatti, "difficile est saturam non scribere"; se anche la natura si oppone, i versi li fa l’indignazione: si natura negat, facit indignatio versum.

Satira 2°: contro l'ipocrisia dei perbenisti e l'omosessualità dilagante.

Satira 3°: l'amico Umbricio abbandona Roma, resa invivibile dal caos e dalla mancanza di ordine pubblico. Viene fornita l’immagine di una città i cui quartieri poveri sono pericolosi e malsani, a differenza delle fastose dimore dei ricchi; beati i tempi che, sotto re e tribuni, videro Roma contenta di una sola prigione.

Satira 4°: è la celebre satira che vede l'imperatore Domiziano riunire il consiglio per decidere come cucinare un enorme pesce (un rombo) che gli è stato regalato.

Satira 5°: descrive il disagio dei clientes umiliati alla cena del ricco Virrone.

 

Libro 2°:

 

Satira 6°: è la più lunga (occupa da sola un intero libro); Giovenale vi dà un celeberrimo saggio di misoginia, mettendo al bando l'immoralità e i vizi delle donne; notevole in particolare la descrizione dell'insaziabile lussuria di Messalina, prima moglie dell’imperatore Claudio.

 

Libro 3°:

 

Satira 7°: illustra la triste situazione della decadenza degli studi e rimpiange il mecenatismo dell’epoca augustea.

Satira 8°: l'argomento della satira è la vera nobiltà: nascere titolati non significa essere nobili; quella che conta è la nobiltà dei sentimenti.

Satira 9°: Nèvolo, omosessuale, si lagna in un lungo monologo di essere poco pagato in rapporto alle sue prestazioni.

 

Libro 4°:

 

Satira 10°: sulla insensatezza dei desideri umani.

Satira 11°: è il confronto fra la povera cena offertagli generosamente da un amico e il lusso inutile ostentato dai ricchi.

Satira 12°: contro i cacciatori di eredità.

 

Libro 5°:

 

Satira 13°: contro gli imbroglioni.

Satira 14°: sull'educazione dei figli: Giovenale esalta l’educazione che un tempo i genitori impartivano ai propri figli, fondata sull’onestà e sulla parsimonia. Nell’epoca contemporanea invece contano solo i soldi: "nessuno ti chiede donde venga il denaro, purché tu ne abbia".

Satira 15°: racconta un episodio di cannibalismo, ambientato in Egitto. Proprio questa satira potrebbe avere originato la notizia del viaggio in Egitto dell'autore ormai ottuagenario.

Satira 16°: Giovenale descrive i privilegi della vita militare. E' incompleta. Anche questa satira è alla base delle dicerie circa il presunto incarico militare in Egitto di Giovenale.

 

Le tematiche: quella di Giovenale è una poetica dell'indignatio: la satira è la sola forma letteraria adatta ad esprimere lo sdegno dell’autore, che vede lo sfacelo morale dei suoi tempi laddove i suoi coetanei vedono l'approssimarsi di una nuova "età dell'oro" dopo la fosca stagione domizianea.

E' evidente che egli non crede alla possibilità di un riscatto da quella situazione, che si limita a denunciare senza neppure tentare di proporre correttivi; in questo si differenzia da Persio e addirittura si contrappone ad Orazio: rinnega cioè il pensiero moralistico romano tradizionale che propone, di fronte alla corruzione e al vizio, risposte di carattere filosofico (la posizione del saggio stoico), di morale sociale. Giovenale non solo rifiuta, ma anzi demistifica questa morale consolatoria, che in ultima analisi lascia tutti i vantaggi pratici ai corrotti, riservando alle persone oneste solo il conforto della propria integrità morale: ben magra consolazione, di fronte al piatto vuoto!

L'astio sociale di Giovenale, che gli deriva dalla sua condizione di cliens, sfocia nell'invettiva dell'emarginato: estraneo al panorama sociale e politico, egli osserva la società romana alla luce degli ideali nazionali e repubblicani (nostalgia per il mos maiorum, per le caste matrone e per i contadini frugali); ne esce un quadro di grande corruzione e confusione sociale, in cui la nobiltà non è più garante e promotrice di cultura, ma lussuriosa e corrotta, inquinata da liberti volgari e arricchiti che detengono un grande potere, orgogliosa delle sue squallide donne "emancipate".

È facile leggere in chiave di democratismo le istanze sociali di Giovenale, ma si tratta di un errore di prospettiva: egli infatti si oppone, sì, alle ingiustizie sociali, ma non è certo dalla parte del volgo becero ed accattone, che chiede solo panem et circenses e pullula di orientali astuti e trafficoni.

Il risultato di queste riflessioni è la satira "contro tutti", in cui si coniugano orgoglio intellettuale e astio nazionalistico, nell'ottica della idealizzazione nostalgica del passato. Ma in realtà l'utopia arcaizzante (destinata a diventare topica del moralismo romano) in cui sfocia la sua indignatio, altro non è che sintomo di biliosa impotenza.

Negli ultimi 2 libri di satire, tuttavia, Giovenale assume un atteggiamento più distaccato e i suoi obiettivi sembrano farsi più generici e sfocati: egli, pur non rinunciando del tutto alla violenta indignatio, recupera più da vicino la tradizione della diàtriba (gli unici veri beni sono quelli interiori, quali la virtù, mentre quelli esteriori non sono che apparenza e non portano alla felicità) e sembra avviarsi verso l'apàtheia stoica.

 

Lo stile: Giovenale non utilizza più il sermo cotidianus proprio della satira luciliana ed oraziana (quanto a Persio, è un caso a sé e stilisticamente non ha paralleli), ma un tono altisonante e magniloquente; si perde il gusto del ridiculum in favore del sublime, con un intenzionale riferimento alla tragedia (si parla infatti per Giovenale di "stile satirico sublime"): un esempio in questo senso è costituito dall'utilizzo di tòpoi epico-tragici in contesti volgari, con un voluto sfasamento di registro rispetto alla materia trattata, oppure dall'accostamento apparentemente gratuito di toni aulici e plebei, di termini altisonanti ed osceni.

Il presunto e tanto decantato "realismo" giovenaliano è in realtà uno specchio deformante della realtà: tutto in lui è esasperato, iperbolico, grottesco, sinistro, tutt'altro che realistico: semmai surreale.

Tutto questo va a connotare non più una realtà umana di cui sorridere, quanto piuttosto un mondo popolato di mostri, in cui l'autore non trova proprio nulla di comico.

L'intento della satira di Giovenale è dunque ben diverso da quello della satira di Persio: quest'ultimo, infatti, intende detrahere pellem, strappare la maschera di perbenismo che cela il vero volto della società, il che implica l'esistenza della nozione del vizio nella gente comune: infatti non si nasconde se non quello che si sa essere male.

Lo scopo della satira tragica di Giovenale è invece quello, ben più arduo, di tentare di restituire il senso del male ad una società che ne ha perso la cognizione ed esibisce il vizio come una moda.

Infine non bisogna dimenticare un altro tratto caratteristico dello stile giovenaliano: la tendenza alla sententia lapidaria ed icastica, che condensa una situazione in un flash di straordinaria efficacia. Gran parte dei "modi di dire" latini di uso comune in italiano proviene da Giovenale ("panem et circenses", "quis custodiet custodes?", "mens sana in corpore sano", etc.).

 

La fortuna: pressoché ignorato nel II e III sec., incontrerà il favore del pubblico nel IV. Ben noto a Dante, a Petrarca, agli umanisti, poi ad Ariosto, Parini, Alfieri, Hugo e Carducci.

 





 

 

 

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