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da "Le metamorfosi" o "L'asino d'oro" 

di Apuleio

  (II parte) 

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Ma il fiume gentile, certamente in omaggio a quel dio che sa dar fuoco perfino alle acque, e temendo anche per sé, subito l’avvolse tra le sue onde senza farle alcun male e la depose sopra la riva erbosa e cosparsa di fiori.

Per caso si trovava lì, seduto sul ciglio del fiume, il rustico dio Pan che teneva tra le sue braccia la sua dea montanina Eco e le insegnava a ripetere cantando le ariette più svariate. Lungo la riva le caprette vagabonde, pascolando qua e là, brucavano la chioma erbosa del fiume. II dio caprigno, chiamando dolcemente la povera Psiche affranta e sfinita, non ignaro del resto di quello che era successo, cercava dl consolarla con queste parole carezzevoli:

"Graziosa fanciulla, io sono è vero rustico e pecoraio, ma la mia vecchiaia mi ha insegnato molte cose. Se non mi sbaglio, e questa è per quelli che lo capiscono la vera arte dell’Indovino, io intuisco dal tuo passo incerto e spesso vacillante, dal tuo eccessivo pallore, dai continui sospiri e infine dai tuoi occhi così addolorati, che tu sei malata di un grande amore. Dammi dunque retta, e non provare nuovamente a buttarti da qualche parte o ad ammazzarti in qualsiasi altro modo. Smettila di piangere e lascia da parte ogni tristezza, e invece prega Cupido, il più potente degli dei, e cerca di propiziartelo con teneri omaggi, perché è un giovinetto delicato e sensibile all’amore".

 

La punizione delle sorelle

Quando il dio dei pastori ebbe finito di parlare, Psiche, senza rispondergli neanche con una parola, ma salutandolo devotamente come una divinità, seguitò la sua strada.

Cammina, cammina, per una strada lunga, faticosa e sconosciuta, verso sera giunse a una città dove regnava il marito di una delle sue sorelle.

Quando Psiche venne a saperlo, chiese di essere annunziata. Fu subito fatta passare, e dopo essersi scambiate baci e abbracci, Psiche giustificò il motivo della sua venuta dicendo:

“Ti ricordi del buon consiglio che mi avete dato, cioè di uccidere con un rasoio affilato la belva che giaceva con me facendosi credere mio marito, prima che mi inghiottisse con la sua gola vorace? Ebbene. appena con la complicità della lucerna, come voi mi avevate suggerito, io vidi il suo volto, mi si presentò davanti agli occhi uno spettacolo stupendo e veramente divino: era lo stesso figlio della dea Venere, Cupido in persona, proprio lui, ti dico, immerso in un sonno dolcissimo! E mentre io stavo lì colpita da quello spettacolo sublime e turbata da un piacere immenso tale che mi pareva di non reggerne il godimento, la mia cattiva stella volle che dalla lucema schizzasse dell'olio bollente sulla sua spalla.

Subito si svegliò per il dolore e vedendomi armata di ferro e di fuoco esclamò: ‘Vattene, dopo che hai tentato di compiere questo abominevole misfatto, vattene subito via dal mio letto, e portati via tutte le tue cose. La mia legittima sposa sarà tua sorella’ e ha fatto espressamente il tuo nome.

Poi ha ordinato a Zefiro di portarmi via col suo soffio dalla sua casa”.

Psiche non aveva ancora finito di parlare che la sorella, agitata dal pungolo di una frenesia lussuriosa e di una malvagia invidia, inventò scaltramente una solenne bugia per il marito dicendogli che le erano morti i genitori e si imbarcò subito su una nave dirigendosi alla rupe. Tirava un vento diverso dal solito, ma lei tutta protesa nella sua cieca speranza, e gridando “Eccomi, Cupido, eccomi! lo sono la sposa degna di te! E tu Zefiro accogli la tua signora!”, con un grandissimo salto si buttò giù.

Dove voleva arrivare non ci arrivò neppure morta. Infatti il suo corpo rimbalzò qua e là sulle rocce acuminate e si sfracellò, come meritava, e le sue membra dilaniate e sparse furono facile pasto di uccelli e bestie feroci.

E non tardò anche la seconda vendetta.

Infatti Psiche, riprendendo il suo cammino senza meta, giunse a un'altra città dove abitava l’altra sorella. Anche questa, non diversamente dalla prima, ingannata da un falso amore fratemo e rivale della sorella in quelle scellerate nozze, si affrettò verso la rupe e precipitò nello stesso modo trovando la morte.

 

Venere viene a conoscenza dell'accaduto

Intanto, mentre Psiche, tutta presa di amore ansioso per Cupido, andava in giro per tutto il mondo, Cupido, ancora dolorante per la bruciatura della lucema, giaceva lamentandosi nel letto della madre.

Allora il gabbiano, quell'uccello bianchissimo che sfiora a nuoto la superficie dell'acqua, si immerse rapidamente nelle profondità dell’Oceano.

Là, avvicinatosi a Venere che si bagnava e nuotava, la informò che suo figlio si era bruciato e stava lamentandosi per il dolore della piaga, ed era in pericolo di vita; e che questa storia era sulla bocca di tutti e che in giro si diceva ogni sorta di malignità e di mormorazioni sulla famiglia di Venere: “Si dice che ve ne siete andati, lui tra le montagne con una sgualdrina, tu nel mare a nuotare, e intanto nel mondo non c’è più alcun piacere, né grazia né garbo, ma tutto è sciatteria, rozzezza, grossolanità. Non più matrimoni regolari, non amicizie, non amore filiale, ma un dilagare dell'immoralità e un molesto fastidio di rapporti squallidi”.

Quel chiacchierone di un uccello andava ciarlando in questo modo spettegolando nelle orecchie di Venere e facendo a pezzi la reputazione del suo figliolo.

Allora Venere piena di collera esclamò a un tratto:

“Dunque quel tesoro di figlioletto ha già un'amica? Tira subito fuori, visto che solo tu mi sei fedele, il nome di quella che ha sedotto quel ragazzino ingenuo e innocente, sia essa una dalle Ninfe o delle Ore, oppure anche una del coro delle Muse o del corteo delle mie Grazie!”

Quell'uccello chiacchierone continuò a parlare:

“Veramente non lo so, mia signora, ma credo, se mi ricordo bene, che sia perdutamente innamorato di una ragazza che si chiama Psiche”.

Allora Venere si infuriò e cominciò a gridare:

“Come? Se è vero che ama Psiche, la mia rivale in bellezza, quella che vorrebbe emulare la mia fama, allora quel mio rampollo mi ha preso per una ruffiana e pensa che gli ho fatto vedere quella ragazza perché se la facesse con lei!”

 

Venere rimprovera Cupìdo

Sbraitando in questo modo uscì rapidamente dall'acqua del mare e andò difilato al suo letto dorato. Là trovò, come le era stato detto, suo figlio ammalato.

Prima ancora di entrare cominciò a gridare ancora fuori della porta:

“Bel modo di fare! Ti sei comportato proprio come dovevi per tenere alto il nome della famiglia e il tuo! Hai calpestato gli ordini di tua madre, anzi della tua regina, visto che ti avevo comandato di tormentare la mia rivale con un amore ignobile, e per di più, ragazzino come sei, te la sei presa come amante e pretendi che io sopporti come nuora una nemica! Fannullone! Seduttore! Mostro! Credi di essere capace solo tu a fare i figli? E che io sia così vecchia da non poteme più avere? Ti farò vedere io! Metterò al mondo un figlio molto migliore di te, anzi, per mortificarti ancora di più adotterò uno dei miei schiavetti e gli regalerò le tue ali, e la fiaccola e l’arco e le frecce, e tutti questi arnesi che ti avevo dato perché ne facessi un uso diverso. Intanto in tutte queste cose che hai non c’è niente che provenga dai beni di tuo padre5”.

Ma tu sei stato viziato fin da piccolo e bisognava tagliarti le unghie finché si era in tempo6. Hai avuto anche l’ardire di prendertela con i tuoi vecchi e persino con me, che sono tua madre, proprio io! Tu mi derubi ogni giorno, assassino! e mi hai perfino picchiato, e mi disprezzi come se fossi una povera vedova, senza un briciolo dì rispetto neanche per il tuo padrigno, che è sommo e fortissimo guerriero.

O non è così? E sei arrivato al punto di procurare anche a lui qualche donnaccia per far dispetto a me!

Ma ci penso io, adesso, a farti pentire di questi tuoi scherzi, e a far diventare acide e amare queste tue nozze!

Ma intanto, così presa in giro, che faccio? Dove vado? Cosa posso inventarmi per ridurre all’obbedienza questa tarantola? Dovrei chiedere aiuto alla Castità, mia nemica, che io ho sempre offeso proprio a causa della condotta dissoluta di questo mio figlio? Mi fa orrore il solo pensiero di dover ricorrere a quella donna squallida e rozza.

D’altra parte non posso disprezzare la soddisfazione della vendetta in qualsiasi modo si compia.

Devo servirmi di lei e di nessun’altra, perché castighi questo sciocco, gli spezzi la faretra, gli spunti le frecce, gli distrugga l’arco, gli spenga la fiaccola, e finalmente domi anche lui, con i rimedi più energici

Allora soltanto potrò ritenere che sia stata vendicata l’offesa che mi è stata fatta, quando gli avrà rasato quelle chiome luminose che io stessa con le mie mani gli ho tante volte riordinato, e quando gli avrà tagliato le ali, che io stessa ho cosparso di nettare nel mio seno”.

Detto questo corse fuori furibonda, anzi infuriata di un furore degno di Venere.

In quel momento le vennero incontro Cerere e Giunone e, vedutala col volto congestionato, le chiesero perché aggrottasse in quel modo le ciglia oscurando la bellezza fulgida del suo sguardo.

Venere rispose:

“Arrivate proprio in tempo per farmi sfogare la rabbia che ho in corpo! Ma vi prego: cercatemi con ogni mezzo questa Psiche che è fuggita via, che si è volatilizzata! Voi certamente sapete la disgraziatissima storia che si è abbattuta sulla mia famiglia e le belle imprese di colui che non si può più dire che sia mio figlio!”.

Allora le dee, ben sapendo quello che era accaduto, tentarono di placare l’ira di Venere prendendola con le buone:

“Ma che cosa ha fatto di male tuo figlio, perché tu debba ostacolarne così tenacemente i piaceri e pensare solo a mandare in rovina la donna che lui ama? Che delitto è mai questo, di far la corte a una graziosa ragazza? Ti sei dimenticata quanti anni ha? Eppure lo sai che è maschio e che è giovane! Oppure, visto che non dimostra la sua età, credi sempre che sia un ragazzino? Tu poi, che sei madre e donna ormai assennata, stai lì a curiosare le scappatelle del tuo ragazzo, e non fai altro che condannarne le passioni e gli amori! Non è forse tuo figlio? E non ti accorgi di biasimare in lui, che è anche tanto bello, le tue stesse abitudini, i tuoi stessi piaceri? Qual dio, quale uomo potrà trovare giusto che tu diffonda ovunque nel mondo la passione dell’amore, e che poi a casa tua tu impedisca con asprezza ogni amore, e chiuda la pubblica scuola dei vizi delle donne?”.

Così le due dee, per timore degli strali di Cupìdo, cercavano dì ingraziarselo benché non fosse presente, patrocinandone la causa.

Ma Venere, indignata perché le offese di cui si lamentava venivano prese poco sul serio, voltò ad esse le spalle e a passi concitati prese la via del mare

 

Inutili invocazioni di Psiche a Cerere e Giunone

Intanto Psiche continuava ad andare alla ricerca dello sposo, vagando giorno e notte da un luogo all’altro, con l’animo affranto, e con la speranza sempre più ardente di riuscire se non a intenerirlo con le carezze che sa fare una moglie, almeno ad ottenerne il perdono supplicandolo come una schiava.

Vide un tempio sulla cima di una montagna scoscesa e si disse: “Chissà che lassù non abiti il mio signore?”.

Subito diresse i suoi passi verso quel luogo, frettolosamente, perché sebbene fosse sfinita per le interminabili fatiche, era tuttavia animata dal desiderio e dalla speranza.

Così, superati rapidamente i colli più alti, si avvicinò al tempio. Qui vide delle spighe di grano, parte legate in covoni, parte intrecciate in ghirlande; e inoltre vide delle spighe d’orzo. Vi erano anche falci e tutti gli attrezzi che servono alla mietitura; ma sparsi dovunque alla rinfusa, come avviene nelle ore più calde quando vengono gettati qua e là dai mietitori.

Psiche con grande diligenza li mise in ordine, ciascuno al suo posto, perché pensava di non dover trascurare i templi e le cerimonie religiose di nessuna divinità, ma anzi di dover conciliare a sé la benevola misericordia di tutte.

Mentre con ogni cura Psiche era intenta a questo lavoro, fu sorpresa dalla divina Cerere, che le si fece incontro esclamando da lontano:

“Oh povera Psiche! Venere, furibonda, ti sta cercando in ogni angolo della terra per darti la morte, e reclama vendetta con tutte le forze del suo potere divino; e tu intanto ti prendi cura delle mie cose, e pensi a tutto tranne che alla tua salvezza?”.

Allora Psiche si gettò ai piedi della dea e glieli bagnò con le lacrime, e spazzando la terra con i capelli le chiedeva aiuto supplicandola in mille modi:

“Per questa tua destra donatrice di messi, per le gioconde cerimonie dei raccolti, per i misteri che avvolgono le tue ceste, per il carro tirato dai tuoi serpenti alati, per le zolle della Sicilia, per il carro che ha rapito tua figlia, per la terra avara che l’ha nascosta, per la discesa di Proserpina verso il luogo tenebroso delle sue nozze, e per il ritrovamento che l’ha riportata alla luce, per tutti gli altri arcani segreti dell’attica Eleusi, vieni in aiuto dell’infelice Psiche, che ti invoca come supplice. Concedimi di rimanere nascosta per qualche giorno tra questi covoni, fino a che non si sia un po’ mitigato il furore di quella tremenda dea o almeno fino a quando si ristorino un poco le mie forze, dopo tanti travagli, con un po’ di quiete!”.

Cerere rispose: “Le tue preghiere e le tue lacrime mi commuovono, e desidero aiutarti; ma non vorrei incorrere nel risentimento della mia nipote7, con la quale inoltre sono da tempo molto amica. Oltre tutto è un’ottima donna.

Dunque vattene subito da questo tempio, e ringrazia il cielo se non ti trattengo qui come prigioniera”.

Psiche si vide respinta contro ogni sua speranza, e la sua angoscia raddoppiò. Tornò allora indietro e scese nella valle e lì vide, in un bosco non troppo folto, un altro tempio costruito a regola d’arte. Non volendo trascurare nessun mezzo, anche se con poca speranza di riuscita, che potesse aprirle la strada a una migliore fortuna, e desiderosa di raccomandarsi a qualsiasi divinità per chiedere aiuto, si avvicinò alle sacre porte del tempio.

Vide allora preziosi doni votivi e drappi istoriati a caratteri d’oro che pendevano dai rami degli alberi e dai battenti delle pone, e che testimoniavano le grazie ottenute col nome della dea a cui erano dedicati.

Allora si inginocchiò e abbracciò l’altare, ancora tiepido, e asciugandosi le lacrime pregò così:

“O sorella e sposa del gran Giove, sia che tu risieda nell’antichissimo tempio di quella Samo che udì per prima il tuo vagito e che sola può gloriarsi di averti dato i natali e di averti allevata, sia che tu frequenti le sedi beate della gran Cartagine, che ti adora come una vergine portata in cielo da un carro tirato da leoni; sia che tu custodisca gli spalti gloriosi degli Argivi lungo le rive del fiume Inaco, che già ti esalta qual moglie di Giove Tonante e regina delle altre dee; te, che tutto l’Oriente venera sotto il nome di Zigia e l’Occidente invoca chiamandoti Lucina; sii tu per me davvero Giunone Salvatrice, nella mia estrema rovina, e liberami dall’angoscia di questo estremo pericolo. Infatti io so bene che tu sei colei che corre in soccorso delle donne che devono partorire quando sono in pericolo!”.

Sentendosi supplicare in questo modo Giunone si presentò subito a Psiche, in tutta l’augusta dignità della sua divinità, e così le disse:

“Come sarei lieta di esaudire le tue preghiere! Ma non posso senza vergogna andare contro il volere di Venere, mia nuora8, che ho sempre rispettato come una figlia. E d’altra parte sarebbe contro di me anche la legge, che vieta di accogliere gli schiavi fuggitivi senza il consenso dei loro padroni”.

Atterrita da questa nuova, tremenda disfatta della Fortuna, Psiche comprese che non avrebbe più potuto raggiungere il suo sposo alato, e priva ormai di ogni speranza si abbandonò a queste amare riflessioni:

“Quali altri mezzi posso io tentare o quali rimedi posso escogitare per porre fine alle mie disgrazie, se neppure le dee, pur volendo darmi aiuto, hanno potuto soccorrermi? Dove dunque rivolgerò i miei passi, ora che sono nuovamente irretita in lacci inestricabili? E sotto quale tetto potrò rifugiarmi o in quali tenebre nascondermi per sfuggire agli sguardi inesorabili della grande Venere?

Ma non è forse meglio che tu, o Psiche, assuma finalmente un animo virile e, rinunciando risolutamente a tutte le speranze vane e meschine, ti rechi di tua spontanea volontà presso la tua signora e, sottomettendoti a lei con umiltà, anche se in ritardo, cerchi di mitigare il suo tremendo furore? Che ne sai, che magari proprio in casa di sua madre tu possa trovare colui che vai cercando con tanta ansia?”.

Così, disposta a subire anche questa umiliazione dall’esito incerto, o piuttosto ad andare incontro ad una sicura rovina, cominciò a riflettere fra sé il modo con cui dare inizio alle sue invocazioni.  

Venere alla ricerca di Psiche

Ma Venere intanto, rinunciando ormai a cercare Psiche sulla terra, decide di rivolgersi al cielo. Dà ordine che le sia preparato lo splendido carro d’oro, opera mirabile d’intaglio e di lima, che Vulcano con sottile arte d’orefice aveva lavorato per lei prima delle nozze, e  glielo aveva offerto come dono nuziale.

Tra le tante colombe che stavano intorno alla camera della loro padrona, ve n’erano quattro bianchissime che avanzavano verso il carro, e con gaia andatura e piegando il collo variopinto si vanno a collocare sotto il timone tempestato di gemme. Poi, salita la padrona, lietamente prendono il volo.

Uno stormo di passeri e di altri uccelli canterini faceva mille giri volteggiando attorno al carro e seguendolo da vicino con allegri cinguettii per festeggiare l’avvento della dea. Ed ecco che le nubi si ritirano, il cielo si apre davanti alla sua figlia e la dea viene accolta gioiosamente nelle più alte regioni dell’atmosfera, mentre la canora famiglia di Venere non ha alcun timore di incontrare aquile o sparvieri rapaci.

Intanto la dea si dirige rapidamente verso il regale palazzo di Giove e con atteggiamento altezzoso chiede di potersi servire della voce stentorea del dio Mercurio. Giove fa cenno di sì col suo nero sopracciglio.

Allora Venere giubilante scende dal cielo con Mercurio parlandogli concitatamente in questi termini:

“Mio fratello Arcade, tu sai che tua sorella Venere non ha mai fatto niente senza l’aiuto di Mercurio, e tu sai di certo che io da molto tempo cerco senza risultato di ritrovare una mia schiava che mi si nasconde. Dunque ormai non resta altro da fare che annunziare pubblicamente attraverso un bando il premio che darò a chi la trova.

Dunque datti da fare ed esegui i miei ordini diffondendo chiaramente i segni che possano permettere di riconoscerla, perché può darsi che qualcuno si sia reso colpevole di averla nascosta, e in tal modo non potrà difendersi col pretesto dell’ignoranza!”.

Così disse Venere e gli diede un manifesto dove era segnato il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni. Fatto questo se ne tornò a casa.

Mercurio obbedì. E andando di qua e di là in giro per tutto il mondo adempiva con grande zelo l’ufficio di banditore, gridando:

“Se qualcuno potrà impedire la fuga o svelare il nascondiglio di una figlia di re, serva di Venere, che si è nascosta, venga dal banditore Mercurio, dietro alle colonne della piazzetta Murcia9. Riceverà in premio da Venere in persona sette dolci baci, e poi uno molto più dolce, colla lingua”.

II desiderio di un tale premio così annunciato da Mercurio aveva suscitato una gara incredibile in mezzo alla gente. Ma questo, soprattutto, servì perché Psiche rompesse ogni indugio. Stava già avvicinandosi al portone del palazzo della sua signora, quando le si fece innanzi una delle ancelle di Venere, di nome Abitudine, che cominciò a gridare con tutto il fiato che aveva in gola:

“Finalmente, serva malvagia, hai cominciato a capire che hai una padrona? Oppure, in aggiunta a tutte le altre tue sfrontatezze, fai finta di non sapere quante ne abbiamo dovute passare per riprenderti? Ma ben ti sta: ora sei cascata al momento giusto tra le mie mani: è come se fossi cascata nelle grinfie dell’Orco, e pagherai subito il fio della tua troppo lunga scappata!”.

 

Psiche davanti a Venere

La prese per i capelli e la trascinava, mentre lei non opponeva la minima resistenza.

Appena Venere se la vide davanti trascinata in quel modo scosse il capo, si grattò l’orecchio destro e scoppiò a ridere rabbiosamente. Poi disse:

“Ti sei degnata finalmente dì venire a salutare tua suocera? O sei venuta qui a cercare tuo marito, che è in pericolo di vita per la piaga che gli hai procurato? Ma sta tranquilla che io ti farò l’accoglienza che si merita una buona nuora!”.

Poi soggiunse:

“Dove sono le mie ancelle Angoscia e Tristezza?”. E così, dopo averle chiamate, gliela consegnò perché la torturassero.

Quelle obbedirono subito al comando della loro padrona, e dopo averla fustigata con le sferze e sottoposta a ogni genere di sevizie la riportarono davanti alla padrona.

Allora Venere ricominciò a sghignazzare ed esclamò:

“Ecco, ora crederà di muovermi a compassione e di intenerirmi con quel suo ventre gonfio, per cui io diventerò nonna, certo di una stirpe assai gloriosa! Sarò proprio felice di sentirmi chiamare nonna mentre sono ancora nel fiore della giovinezza, soprattutto quando si saprà che il nipote di Venere è figlio di una sgualdrina!

Ma che sciocchezze vado dicendo chiamandolo figlio? Le nozze fra persone di diverso rango e fatte per di più tra i campi e senza testimoni e senza il consenso del padre non possono certo essere valide: quindi tuo figlio sarà un bastardo, ammesso che io ti consenta di metterlo al mondo!”.

 

Venere infligge la prima prova a Psiche. Aiuto delle formiche.

Così dicendo si avventa contro Psiche, le straccia la veste, le strappa i capelli e la riempie di botte scuotendola per la testa; poi si fa portare grano, orzo, miglio e semi di papavero e ceci e lenticchie e fave, li mescola insieme facendone un gran mucchio e poi volgendosi a Psiche le dice:

“Tu mi sembri una schiava così brutta che puoi acquistare la benevolenza dei tuoi amanti solo con dei piccoli servizi che richiedono un’estrema pazienza. Ebbene, anch’io voglio mettere a prova la tua abilità. Dovrai scegliere da questo confuso ammasso di grani quelli appartenenti a ciascuna specie: separali e riordinali dividendoli a mucchietti uno per uno, e fammi trovare il lavoro terminato prima di sera”.

Così la lasciò davanti a tutto quel mucchio di semi e se ne andò a un pranzo di nozze.

Psiche però, dinanzi a quell’ammasso inestricabile di semi non ebbe neppure il coraggio di metterci le mani, ma costernata per l’enormità del lavoro che doveva svolgere, rimase lì stupita come una scema.

Allora la formichina che ha nei campì la sua piccola casa, ben sapendo quanto fosse penoso quel lavoro e piena di compassione per le disgrazie capitate alla compagna del gran dio, mentre invece biasimava la crudeltà della suocera, si diede da fare a radunare da ogni parte tutte le schiere di formiche che abitavano quel paese, dicendo:

“Abbiate pietà, operose figlie della madre Terra, abbiate pietà e correte presto in aiuto di questa bella ragazza in pericolo, che è  la moglie di Amore!”.

Ed ecco che a ondate successive si precipitarono una dopo l’altra le schiere di quel popolo a sei zampe, e mettendocela tutta divisero grano dopo grano tutto il mucchio di sementi, separando e distribuendo con ordine tutte le specie; poi se ne andarono di corsa.

Al calar della notte Venere ritornò dal pranzo nuziale, mezza ubriaca, tutta profumata e inghirlandata di splendide rose. Vide la straordinaria diligenza di quel lavoro ed esclamò:

“Brutta delinquente! Questo lavoro non è opera tua, e non certo delle tue mani! Qui c’è entrato di sicuro colui al quale tu sei piaciuta, per la tua, anzi per la sua rovina”.

E così dicendo gettò a Psiche un tozzo di pane e se ne andò a dormire.

Intanto Cupido se ne stava tutto solo, chiuso e sotto vigilanza, in una camera isolata all’interno della casa, sia perché non aggravasse la sua piaga con la sua sfrenata intemperanza, sia perché non potesse incontrarsi con la sua bella. E così i due amanti trascorsero una notte tristissima, divisi e separati sotto lo stesso tetto.

 

La seconda prova e l'aiuto della canna

Ma appena l’Aurora spinse innanzi il suo cocchio Venere fece chiamare Psiche e le disse:

“Vedi quel bosco, che si stende lungo le rive di quel fiume, e i cui arbusti più bassi si specchiano nell’acqua lì vicino? Là pascolano senza sorveglianza delle splendide pecore, che hanno la lana d’oro. Voglio che tu mi porti da lì al più presto, in qualsiasi modo tu possa procurartelo, un fiocco di lana di quel prezioso vello”.

Psiche si mise subito in cammino, non tanto per obbedire al comando ricevuto, quanto per trovare finalmente riposo ai suoi mali buttandosi giù dalla rupe nel fiume.

Ma di lì una verde canna, esile suonatrice delle musiche più soavi, sporgendo dal fume ispirata divinamente dal lieve mormorio di una dolce brezza, l’ammonì in tal modo:

“Psiche, perseguitata da tante sventure, non contaminare le mie acque sacre con la tua morte miseranda, e non avvicinarti proprio ora a quelle terribili pecore. Infatti, infiammate dalla vampa del sole cocente esse sono in calore e vanno soggette ad accessi di rabbia furiosa. e con le corna aguzze e con le fronti dure come sassi e persino con morsi avvelenati si avventano e arrivano a uccidere gli esseri umani. Ma finché il sole non avrà mitigato il suo calore e le bestie riposeranno nella calma della brezza fluviale, tu riposati sotto quel gran platano che si disseta con me alla stessa corrente. Quando poi le pecore,. calmata la loro rabbia, diventeranno mansuete, tu scuotendo le fronde del bosco lì vicino vi troverai impigliati nei rami intricati i bioccoli della lana d’oro”.

  In questo modo la canna semplice e umana insegnava la via della salvezza alla infelicissima Psiche. Ed essa non tardò ad obbedire mettendo in atto con ogni attenzione i consigli di cui certo non si sarebbe pentita, anzi li eseguì in ogni particolare, cosicché il furto fu facile ed essa portò a Venere il grembo colmo di bionda e soffice lana d’oro.

 

La terza prova e l’aiuto dell’aquila

Tuttavia nemmeno di questa seconda terribile prova fu contenta la dea, la quale, aggrottando le sopracciglia, le disse con un amaro sorriso:

“Anche di questo fatto io so chi è l’autore clandestino. Ma adesso voglio subito sperimentare se tu sei davvero dotata di animo audace e di straordinaria prudenza. Vedi la cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna altissima e dirupata? Da quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e raccogliendosi in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto dove la sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola urna piena di quell’acqua”.

Così dicendo le consegnò un piccolo vaso di cristallo lavorato, aggiungendo ancor più tremende parole minacciose.

Psiche si avviò a rapidi passi per raggiungere la vetta di quel monte, sicura che là avrebbe trovato se non altro la fine della sua travagliata esistenza.

Ma quando giunse nelle vicinanze della cima, subito si accorse della mortale difficoltà dell’impresa. Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa che, penetrando per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le fenditure e scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella valle vicina.

Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo negli anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille eternamente intente alla luce.

Anche le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi da se stesse gridando continuamente: “Vattene!”. “Che fai?” “Stai attenta!” “Scappa...” “Farai una brutta fine!”

Psiche, pietrificata dinanzi a tante difficoltà, era lì presente col corpo ma incapace di servirsi dei suoi sensi, tanto che, atterrita dalla mole di un’impresa impossibile, era priva perfino di quell’unico sollievo che dà il pianto.

Ma la sventura di quell’anima innocente non sfuggì agli occhi profondi della pietosa Provvidenza.

Infatti l’uccello regale del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all’improvviso ad ali spiegate. Si ricordava dell’antico onore fattole da Cupido, quando l’aveva scelta per rapire per conto di Giove il coppiere Frigio, e correndo ad aiutare al momento giusto la di lui sposa che si trovava in mezzo ai travagli volle onorare la potenza del dio. Scese dunque giù dalle regioni celesti per la strada riservata agli dei, e svolazzando davanti al viso della fanciulla le disse:

“Quanto sei ingenua, e ignara di queste cose! Credi forse di poter non dico rubarne una goccia, ma di poter solo toccare quell’acqua, santissima e tremenda insieme? Non vedi che sei in presenza delle acque temute dagli dei, e perfino dallo stesso Giove? Non hai mai sentito dire che gli dèi giurano per la maestà dello Stige, come voi per quella dei numi? Dammi dunque questa brocca!”.

E così dicendo gliela porta via stringendola tra gli artigli e librandosi rapidamente con tutta la larghezza delle sue grandi ali battenti in mezzo alle bocche aperte dei draghi armate di denti acuminati e tra le loro vibranti lingue trifide, attinge l’acqua, che cercava di sottrarsi minacciando e intimandole di andarsene prima di ricevere qualche danno. L’aquila tuttavia, affermando che andava ad attingere per ordine di Venere e che a lei doveva portare quell’acqua, riuscì, con quel pretesto, ad avvicinarsi con una certa sicurezza.

 

La quarta prova. Psiche discende agli inferi

Così, presa gioiosamente la brocca piena d’acqua, Psiche andò subito a portarla a Venere. Ma neppure con questo poté rasserenare il volto infuriato della dea. Anzi, minacciandola ancora di volerla sottoporre a prove più gravi e più crudeli, con un ghigno infausto l’apostrofa in questo modo:

“Ormai devo proprio credere che sei una gran maga e capace di vere stregonerie, se hai potuto fare con tanta bravura quello che ti ho ordinato! Ma adesso, bamboletta mia, ti resta un altro ordine che dovrai eseguire: prendi questo vasetto”, e glielo porse, “e vai all’inferno, proprio nella stessa dimora infernale dello stesso Orco. Quando sarai là presenta il barattolo a Proserpina e dille: ‘Venere ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve per una sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha tutta consumata e finita per curare il figlio ammalato’. E vedi di non fare tardi, perché devo mettermela sul viso prima di andare all’assemblea degli dèi”.

Allora Psiche si accorse di essere arrivata all’estremo della sfortuna, e capì che la si mandava apertamente alla morte. E come no? Veniva costretta ad andare coi suoi propri piedi sino al Tartaro e presso gli dei Mani.

Senza indugio si avviò verso una torre altissima, con l’intenzione di buttarsi giù dalla sua cima. Quella le sembrava la via più breve e più facile per arrivare all’inferno.

Ma improvvisamente la torre cominciò a parlarle in questo modo:

“Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti giù? Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile ma anche ultima prova? È chiaro che, se la tua anima si sarà separata dal corpo, te ne andrai diritta nel profondo Tartaro, ma di là poi non potrai tornare per nessuna ragione. Quindi ascoltami.

Non lontano di qui si trova Sparta, una bellissima città dell’Acaia. Ai confini di essa devi cercare un promontorio di nome Tenaro, che si trova in un luogo nascosto e fuori mano, Lì si apre una spaccatura che porta al regno degli Inferi, e attraverso le sue porte spalancate si intravede un cammino inaccessibile. Tu supera la porta e avviati per quella strada; arriverai attraverso questo cunicolo alla reggia dell’Orco.

Ma non dovrai andare là, in quelle tenebre, a mani vuote: porta in entrambe le mani una focaccia d’orzo impastata con vino e miele, e mettiti in bocca due monetine.

Quando avrai percorso buona parte di quella strada destinata ai morti incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un mulattiere, anch’egli mal messo, il quale ti pregherà di raccogliergli un po’ della legna di fascina che gli va cadendo per la via. Tu non dargli retta e senza rispondere passa oltre in silenzio. Poco dopo giungerai al fiume dei morti, il cui traghettatore è Caronte, che chiede per prima cosa il prezzo del passaggio, poi con la sua barcaccia di cuoio rappezzato traghetta i passeggeri nell’altra riva. Sì, infatti anche tra i morti è viva l'avarizia! Caronte infatti che è l’esattore dell’inferno, un dio certamente molto grande, non fa nulla per nulla; perciò anche il povero quando muore deve provvedersi dei soldi per il viaggio, perché se non si presenta coi soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di crepare.

A questo laido vecchio tu darai come nolo una delle monetine che porti in bocca, ma fa’ in modo che la prenda lui stesso con la sua mano.

Poi, quando starai attraversando la lenta corrente, vedrai un vecchio morto galleggiare nell’acqua: ti tenderà le braccia scarne, pregandoti di accoglierlo dentro la barca. Tu però non lasciarti prendere dalla pietà, che non è consentita laggiù.

Passato il fiume incontrerai poco più in là alcune vecchie intente a tessere una tela, che ti chiederanno di dargli una mano: ricordati che non puoi fare neanche questo. Tutte queste cose, è necessario che tu lo sappia, sono tutti tranelli di Venere allo scopo di farti lasciare una delle focacce che avrai in mano. E non credere che questa delle focacce sia una cosa di poco conto: perché se tu ne perderai una sola non ritomerai mai più alla luce. Infatti c’è un enorme cane, un mostro con tre teste enormi, che con i suoi latrati assordanti rintrona le orecchie dei morti terrorizzandoli, anche se non può far nulla; e in tal modo fa la guardia alla soglia e al nero atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite.

Così senza difficoltà giungerai dinanzi a Proserpina. Essa ti accoglierà con benignità e cortesia, anzi ti inviterà perfino a sedere e ristorarti con un buon pranzo. Tu però siediti a terra, mangia un tozzo di pane nero che chiederai in elemosina, poi riferisci il motivo per cui ti trovi lì, e preso in consegna quello che ti verrà dato prendi la via del ritorno. Placa nuovamente il cane con quell’altra focaccia, dài l’altra moneta all’avaro traghettatore e, ripassato il fiume, ripercorri lo stesso tragitto dell’andata, e tornerai a rivedere questo coro di stelle celesti.

C’è un’ultima raccomandazione, ed è la più importante: non aprire e non guardare dentro al vasetto che porterai, e comunque non essere troppo curiosa riguardo al tesoro di divina bellezza che è nascosto lì dentro”.

Così la torre profetica mise fine con queste parole alla sua funzione d’oracolo.

Psiche non indugiò: andò verso la porta Tenaria, fornendosi delle monetine e delle focacce, secondo le istruzioni ricevute, e si calò nel cunicolo che porta agli Inferi. Superò senza parlare l’asinaio zoppo, diede la monetina al barcaiolo, non diede retta al morto che galleggiava, spregiò le insidiose preghiere delle tessitrici, placò con l’offerta di una focaccia il cane rabbioso e orrendo, e così poté introdursi nella dimora di Proserpina. Una volta giunta là non volle servirsi della morbida seggiola, e non accettò i cibi squisiti che le venivano offerti dalla dea, ma si sedette per terra ai suoi piedi, e mangiando il suo pane nero riferì la richiesta di Venere.

Prese subito il vasetto che Proserpina aveva riempito e rinchiuso senza farsi vedere; poi offrendo al momento giusto la seconda focaccia chiuse la bocca al cane che latrava, diede quindi la seconda monetina al barcaiolo e risalì dagli inferi con passo più disinvolto di prima.

Così rivide e si prostrò ad adorare la luminosa luce del giorno. Ma sebbene avesse fretta di portare a termine il suo mandato, fu presa da una temeraria curiosità.

“Ma come”, disse, “sarei così sciocca da portare la divina bellezza senza servirmene neppure un po’, magari per rendermi più bella agli occhi del mio amante?.”

E così dicendo aprì il vasetto. Dentro, purtroppo, non c’era proprio niente e neppure l’ombra della bellezza! C’era solo del sonno, un sonno infernale e proveniente davvero dallo Stige, che appena liberato dal coperchio la assalì: una densa nebbia soporifera si diffuse per tutte le sue membra e si impadronì di lei: essa cadde a terra e stramazzò in mezzo alla strada, proprio nel posto dove aveva posato il piede. E così restò là a giacere immobile, simile in tutto a un cadavere sepolto nel sonno della morte.

 

Amore va in aiuto di Psiche

Frattanto Amore, al quale si era cicatrizzata la ferita, non potendo più sopportare l’assenza della sua Psiche, scappò attraverso una finestra altissima della stanza dove era tenuto prigioniero, e siccome durante il sonno gli si erano rinvigorite le ali, volando più veloce che mai accorse in aiuto alla sua diletta. Subito le tolse di dosso tutto quel sonno e con ogni attenzione lo rinchiuse per bene nell’apposito vasetto, poi svegliò Psiche con una leggera e innocua puntura della sua freccia e le disse.

“Ecco che di nuovo, poverina, sei caduta vittima della tua curiosità! Ma adesso pensa a portare a termine il comando di mia madre, per il resto me la vedrò io!"

Disse così, e se ne andò con un volo leggero.

Psiche allora si affrettò a portare a Venere il dono di Proserpina.

Cupido intanto, consumato dall’eccesso del suo desiderio, tutto triste in volto, temendo molto l’improvvisa castità di sua madre, pensò di ritornare alle sue vecchie abitudini.

Perciò penetrò nel centro del cielo con le sue ali veloci, e si mise a supplicare il grande Giove, e a perorare la sua causa. Giove lo prese affettuosamente per la guancia, lo avvicinò in tal modo al suo volto, lo baciò e gli disse:

“Anche se tu, mio signor figlio, non mi hai mai reso quell’omaggio che mi è dovuto per decreto degli dei, ed anzi hai ferito più volte con i tuoi colpi questo mio petto, che regola le leggi della natura e i movimenti degli astri, e contravvenendo alle leggi, e in modo particolare alla legge Giulia10 e alla pubblica moralità hai offeso il mio onore e la mia reputazione con i più sconci adulteri, trasformando vergognosamente il mio volto sereno in serpente, in fuoco, in uccello, in animale da mandria, tuttavia, in considerazione del fatto che sei cresciuto tra le mie braccia, e per non venir meno alla mia ben nota bontà, farò tutto quello che tu vuoi. Stai attento però ai tuoi rivali, e se sulla terra c’è in questo momento qualche fanciulla particolarmente bella, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!”.

Così parlò Giove, e subito diede ordine a Mercurio di convocare il concilio di tutti gli dèi, avvertendo che, se fosse mancato qualcuno all’adunanza dei Celesti, sarebbe incappato in una multa di diecimila sesterzi.

Per il timore di questo castigo si riempì subito tutto il teatro delle riunioni del cielo, e Giove, dall’alto del suo trono sublime, così parlò:

“O dei coscritti nell’albo delle Muse, tutti certamente sapete che questo ragazzo è venuto su crescendo fra le mie mani. Perciò mi è sembrato giusto frenare un po’ i suoi primi ardori giovanili; ormai si è abbastanza compromesso con adulteri e scandali di tutti i generi che sono sulla bocca di tutti. È meglio pertanto che si tolga di mezzo ogni occasione e che con nozze regolari venga frenata la sua esuberanza giovanile.

Egli si è già scelta la sua ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se la tenga, se la sposi, e tra le braccia di Psiche goda eternamente l’amore”.

Poi si volse a Venere e le disse:

“E tu, figlia, non affliggerti e non temere che questo matrimonio con una mortale rechi danno al tuo illustre casato. Io farò subito in modo che le nozze non siano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile”.  

E subito ordinò a Mercurio di andare a prendere Psiche e di portarla in cielo.

Poi le porse una coppa colma di ambrosia e le disse:

“Bevi, Psiche, e sii immortale! Amore non sarà mai sciolto dal vincolo che lo 

unisce a te. Da oggi voi siete sposi per tutta l’etemità”.

 

Le nozze di Psiche con Amore

Subito dopo venne servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul letto più alto, e tra le sue braccia teneva Psiche.

Poi veniva Giove con la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.

Fu offerto il nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel pastore fanciullo, suo coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore spandevano tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati, le Grazie spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi. Poi Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere danzò graziosamente in una danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le Muse cantavano in coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella zampogna.

Così Psiche divenne sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per il parto fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo Voluttà.”

 

Fine della favola di Amore e Psiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota 5: la legge prescriveva che non potessero tolti ai figli i beni avuti dal padre. Apuleio applica le leggi del tempo, che conosceva bene come avvocato, anche al mondo degli dei, rendendone così scherzoso il riferimento.  

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Nota 6: secondo un’antica diceria, se ad un bambino piccolo non si tagliavano le unghie, da grande diventava un ladro.  

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Nota 7: Venere era figlia di Giove, fratello di Cerere.  

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Nota 8: Venere era moglie di Vulcano, figlio di Giove e di Giunone.  

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Nota 9: valle tra il Palatino e l’Aventino dove si trovava una tempietto in onore di Mercurio.  

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Nota 10: legge che puniva l’adulterio.

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Venere alla ricerca di Psiche

Ma Venere intanto, rinunciando ormai a cercare Psiche sulla terra, decide di rivolgersi al cielo. Dà ordine che le sia preparato lo splendido carro d’oro, opera mirabile d’intaglio e di lima, che Vulcano con sottile arte d’orefice aveva lavorato per lei prima delle nozze, e  glielo aveva offerto come dono nuziale.

Tra le tante colombe che stavano intorno alla camera della loro padrona, ve n’erano quattro bianchissime che avanzavano verso il carro, e con gaia andatura e piegando il collo variopinto si vanno a collocare sotto il timone tempestato di gemme. Poi, salita la padrona, lietamente prendono il volo.

Uno stormo di passeri e di altri uccelli canterini faceva mille giri volteggiando attorno al carro e seguendolo da vicino con allegri cinguettii per festeggiare l’avvento della dea. Ed ecco che le nubi si ritirano, il cielo si apre davanti alla sua figlia e la dea viene accolta gioiosamente nelle più alte regioni dell’atmosfera, mentre la canora famiglia di Venere non ha alcun timore di incontrare aquile o sparvieri rapaci.

Intanto la dea si dirige rapidamente verso il regale palazzo di Giove e con atteggiamento altezzoso chiede di potersi servire della voce stentorea del dio Mercurio. Giove fa cenno di sì col suo nero sopracciglio.

Allora Venere giubilante scende dal cielo con Mercurio parlandogli concitatamente in questi termini:

“Mio fratello Arcade, tu sai che tua sorella Venere non ha mai fatto niente senza l’aiuto di Mercurio, e tu sai di certo che io da molto tempo cerco senza risultato di ritrovare una mia schiava che mi si nasconde. Dunque ormai non resta altro da fare che annunziare pubblicamente attraverso un bando il premio che darò a chi la trova.

Dunque datti da fare ed esegui i miei ordini diffondendo chiaramente i segni che possano permettere di riconoscerla, perché può darsi che qualcuno si sia reso colpevole di averla nascosta, e in tal modo non potrà difendersi col pretesto dell’ignoranza!”.

Così disse Venere e gli diede un manifesto dove era segnato il nome di Psiche e tutte le altre indicazioni. Fatto questo se ne tornò a casa.

Mercurio obbedì. E andando di qua e di là in giro per tutto il mondo adempiva con grande zelo l’ufficio di banditore, gridando:

“Se qualcuno potrà impedire la fuga o svelare il nascondiglio di una figlia di re, serva di Venere, che si è nascosta, venga dal banditore Mercurio, dietro alle colonne della piazzetta Murcia9. Riceverà in premio da Venere in persona sette dolci baci, e poi uno molto più dolce, colla lingua”.

II desiderio di un tale premio così annunciato da Mercurio aveva suscitato una gara incredibile in mezzo alla gente. Ma questo, soprattutto, servì perché Psiche rompesse ogni indugio. Stava già avvicinandosi al portone del palazzo della sua signora, quando le si fece innanzi una delle ancelle di Venere, di nome Abitudine, che cominciò a gridare con tutto il fiato che aveva in gola:

“Finalmente, serva malvagia, hai cominciato a capire che hai una padrona? Oppure, in aggiunta a tutte le altre tue sfrontatezze, fai finta di non sapere quante ne abbiamo dovute passare per riprenderti? Ma ben ti sta: ora sei cascata al momento giusto tra le mie mani: è come se fossi cascata nelle grinfie dell’Orco, e pagherai subito il fio della tua troppo lunga scappata!”.

 

Psiche davanti a Venere

La prese per i capelli e la trascinava, mentre lei non opponeva la minima resistenza.

Appena Venere se la vide davanti trascinata in quel modo scosse il capo, si grattò l’orecchio destro e scoppiò a ridere rabbiosamente. Poi disse:

“Ti sei degnata finalmente dì venire a salutare tua suocera? O sei venuta qui a cercare tuo marito, che è in pericolo di vita per la piaga che gli hai procurato? Ma sta tranquilla che io ti farò l’accoglienza che si merita una buona nuora!”.

Poi soggiunse:

“Dove sono le mie ancelle Angoscia e Tristezza?”. E così, dopo averle chiamate, gliela consegnò perché la torturassero.

Quelle obbedirono subito al comando della loro padrona, e dopo averla fustigata con le sferze e sottoposta a ogni genere di sevizie la riportarono davanti alla padrona.

Allora Venere ricominciò a sghignazzare ed esclamò:

“Ecco, ora crederà di muovermi a compassione e di intenerirmi con quel suo ventre gonfio, per cui io diventerò nonna, certo di una stirpe assai gloriosa! Sarò proprio felice di sentirmi chiamare nonna mentre sono ancora nel fiore della giovinezza, soprattutto quando si saprà che il nipote di Venere è figlio di una sgualdrina!

Ma che sciocchezze vado dicendo chiamandolo figlio? Le nozze fra persone di diverso rango e fatte per di più tra i campi e senza testimoni e senza il consenso del padre non possono certo essere valide: quindi tuo figlio sarà un bastardo, ammesso che io ti consenta di metterlo al mondo!”.

 

Venere infligge la prima prova a Psiche. Aiuto delle formiche.

Così dicendo si avventa contro Psiche, le straccia la veste, le strappa i capelli e la riempie di botte scuotendola per la testa; poi si fa portare grano, orzo, miglio e semi di papavero e ceci e lenticchie e fave, li mescola insieme facendone un gran mucchio e poi volgendosi a Psiche le dice:

“Tu mi sembri una schiava così brutta che puoi acquistare la benevolenza dei tuoi amanti solo con dei piccoli servizi che richiedono un’estrema pazienza. Ebbene, anch’io voglio mettere a prova la tua abilità. Dovrai scegliere da questo confuso ammasso di grani quelli appartenenti a ciascuna specie: separali e riordinali dividendoli a mucchietti uno per uno, e fammi trovare il lavoro terminato prima di sera”.

Così la lasciò davanti a tutto quel mucchio di semi e se ne andò a un pranzo di nozze.

Psiche però, dinanzi a quell’ammasso inestricabile di semi non ebbe neppure il coraggio di metterci le mani, ma costernata per l’enormità del lavoro che doveva svolgere, rimase lì stupita come una scema.

Allora la formichina che ha nei campì la sua piccola casa, ben sapendo quanto fosse penoso quel lavoro e piena di compassione per le disgrazie capitate alla compagna del gran dio, mentre invece biasimava la crudeltà della suocera, si diede da fare a radunare da ogni parte tutte le schiere di formiche che abitavano quel paese, dicendo:

“Abbiate pietà, operose figlie della madre Terra, abbiate pietà e correte presto in aiuto di questa bella ragazza in pericolo, che è  la moglie di Amore!”.

Ed ecco che a ondate successive si precipitarono una dopo l’altra le schiere di quel popolo a sei zampe, e mettendocela tutta divisero grano dopo grano tutto il mucchio di sementi, separando e distribuendo con ordine tutte le specie; poi se ne andarono di corsa.

Al calar della notte Venere ritornò dal pranzo nuziale, mezza ubriaca, tutta profumata e inghirlandata di splendide rose. Vide la straordinaria diligenza di quel lavoro ed esclamò:

“Brutta delinquente! Questo lavoro non è opera tua, e non certo delle tue mani! Qui c’è entrato di sicuro colui al quale tu sei piaciuta, per la tua, anzi per la sua rovina”.

E così dicendo gettò a Psiche un tozzo di pane e se ne andò a dormire.

Intanto Cupido se ne stava tutto solo, chiuso e sotto vigilanza, in una camera isolata all’interno della casa, sia perché non aggravasse la sua piaga con la sua sfrenata intemperanza, sia perché non potesse incontrarsi con la sua bella. E così i due amanti trascorsero una notte tristissima, divisi e separati sotto lo stesso tetto.

 

La seconda prova e l'aiuto della canna

Ma appena l’Aurora spinse innanzi il suo cocchio Venere fece chiamare Psiche e le disse:

“Vedi quel bosco, che si stende lungo le rive di quel fiume, e i cui arbusti più bassi si specchiano nell’acqua lì vicino? Là pascolano senza sorveglianza delle splendide pecore, che hanno la lana d’oro. Voglio che tu mi porti da lì al più presto, in qualsiasi modo tu possa procurartelo, un fiocco di lana di quel prezioso vello”.

Psiche si mise subito in cammino, non tanto per obbedire al comando ricevuto, quanto per trovare finalmente riposo ai suoi mali buttandosi giù dalla rupe nel fiume.

Ma di lì una verde canna, esile suonatrice delle musiche più soavi, sporgendo dal fume ispirata divinamente dal lieve mormorio di una dolce brezza, l’ammonì in tal modo:

“Psiche, perseguitata da tante sventure, non contaminare le mie acque sacre con la tua morte miseranda, e non avvicinarti proprio ora a quelle terribili pecore. Infatti, infiammate dalla vampa del sole cocente esse sono in calore e vanno soggette ad accessi di rabbia furiosa. e con le corna aguzze e con le fronti dure come sassi e persino con morsi avvelenati si avventano e arrivano a uccidere gli esseri umani. Ma finché il sole non avrà mitigato il suo calore e le bestie riposeranno nella calma della brezza fluviale, tu riposati sotto quel gran platano che si disseta con me alla stessa corrente. Quando poi le pecore,. calmata la loro rabbia, diventeranno mansuete, tu scuotendo le fronde del bosco lì vicino vi troverai impigliati nei rami intricati i bioccoli della lana d’oro”.

  In questo modo la canna semplice e umana insegnava la via della salvezza alla infelicissima Psiche. Ed essa non tardò ad obbedire mettendo in atto con ogni attenzione i consigli di cui certo non si sarebbe pentita, anzi li eseguì in ogni particolare, cosicché il furto fu facile ed essa portò a Venere il grembo colmo di bionda e soffice lana d’oro.

 

La terza prova e l’aiuto dell’aquila

Tuttavia nemmeno di questa seconda terribile prova fu contenta la dea, la quale, aggrottando le sopracciglia, le disse con un amaro sorriso:

“Anche di questo fatto io so chi è l’autore clandestino. Ma adesso voglio subito sperimentare se tu sei davvero dotata di animo audace e di straordinaria prudenza. Vedi la cima di quell’erto monte, che sovrasta quella montagna altissima e dirupata? Da quella cima scaturiscono le acque oscure di una nera sorgente, e raccogliendosi in fondo alla valle vicina, scendono a irrigare la palude Stigia e ad alimentare la cupa corrente di Cocito. Tu devi salire fino al punto dove la sorgente scaturisce freddissima dalla terra e riportarmi questa piccola urna piena di quell’acqua”.

Così dicendo le consegnò un piccolo vaso di cristallo lavorato, aggiungendo ancor più tremende parole minacciose.

Psiche si avviò a rapidi passi per raggiungere la vetta di quel monte, sicura che là avrebbe trovato se non altro la fine della sua travagliata esistenza.

Ma quando giunse nelle vicinanze della cima, subito si accorse della mortale difficoltà dell’impresa. Infatti una rupe altissima, scoscesa e inaccessibile rovesciava dal mezzo di una spaccatura quell’acqua spaventosa che, penetrando per certi passaggi stretti e angusti, si precipitava fuori per le fenditure e scorreva giù lungo il declivio, cadendo invisibile nella valle vicina.

Accanto ad essa, a destra e a sinistra, le facevano la guardia dei terribile draghi che strisciavano e tendevano il collo negli anfratti della roccia, con gli occhi sempre aperti e le pupille eternamente intente alla luce.

Anche le acque, che avevano il dono della parola, cercavano di difendersi da se stesse gridando continuamente: “Vattene!”. “Che fai?” “Stai attenta!” “Scappa...” “Farai una brutta fine!”

Psiche, pietrificata dinanzi a tante difficoltà, era lì presente col corpo ma incapace di servirsi dei suoi sensi, tanto che, atterrita dalla mole di un’impresa impossibile, era priva perfino di quell’unico sollievo che dà il pianto.

Ma la sventura di quell’anima innocente non sfuggì agli occhi profondi della pietosa Provvidenza.

Infatti l’uccello regale del sommo Giove, l’aquila rapace, comparve all’improvviso ad ali spiegate. Si ricordava dell’antico onore fattole da Cupido, quando l’aveva scelta per rapire per conto di Giove il coppiere Frigio, e correndo ad aiutare al momento giusto la di lui sposa che si trovava in mezzo ai travagli volle onorare la potenza del dio. Scese dunque giù dalle regioni celesti per la strada riservata agli dei, e svolazzando davanti al viso della fanciulla le disse:

“Quanto sei ingenua, e ignara di queste cose! Credi forse di poter non dico rubarne una goccia, ma di poter solo toccare quell’acqua, santissima e tremenda insieme? Non vedi che sei in presenza delle acque temute dagli dei, e perfino dallo stesso Giove? Non hai mai sentito dire che gli dèi giurano per la maestà dello Stige, come voi per quella dei numi? Dammi dunque questa brocca!”.

E così dicendo gliela porta via stringendola tra gli artigli e librandosi rapidamente con tutta la larghezza delle sue grandi ali battenti in mezzo alle bocche aperte dei draghi armate di denti acuminati e tra le loro vibranti lingue trifide, attinge l’acqua, che cercava di sottrarsi minacciando e intimandole di andarsene prima di ricevere qualche danno. L’aquila tuttavia, affermando che andava ad attingere per ordine di Venere e che a lei doveva portare quell’acqua, riuscì, con quel pretesto, ad avvicinarsi con una certa sicurezza.

 

La quarta prova. Psiche discende agli inferi

Così, presa gioiosamente la brocca piena d’acqua, Psiche andò subito a portarla a Venere. Ma neppure con questo poté rasserenare il volto infuriato della dea. Anzi, minacciandola ancora di volerla sottoporre a prove più gravi e più crudeli, con un ghigno infausto l’apostrofa in questo modo:

“Ormai devo proprio credere che sei una gran maga e capace di vere stregonerie, se hai potuto fare con tanta bravura quello che ti ho ordinato! Ma adesso, bamboletta mia, ti resta un altro ordine che dovrai eseguire: prendi questo vasetto”, e glielo porse, “e vai all’inferno, proprio nella stessa dimora infernale dello stesso Orco. Quando sarai là presenta il barattolo a Proserpina e dille: ‘Venere ti prega di mandarle un poco della tua bellezza, almeno quanta ne serve per una sola breve giornata. Perché quella che aveva l’ha tutta consumata e finita per curare il figlio ammalato’. E vedi di non fare tardi, perché devo mettermela sul viso prima di andare all’assemblea degli dèi”.

Allora Psiche si accorse di essere arrivata all’estremo della sfortuna, e capì che la si mandava apertamente alla morte. E come no? Veniva costretta ad andare coi suoi propri piedi sino al Tartaro e presso gli dei Mani.

Senza indugio si avviò verso una torre altissima, con l’intenzione di buttarsi giù dalla sua cima. Quella le sembrava la via più breve e più facile per arrivare all’inferno.

Ma improvvisamente la torre cominciò a parlarle in questo modo:

“Disgraziata! Perché vuoi ammazzarti buttandoti giù? Perché senza reagire ti lasci sopraffare da questa terribile ma anche ultima prova? È chiaro che, se la tua anima si sarà separata dal corpo, te ne andrai diritta nel profondo Tartaro, ma di là poi non potrai tornare per nessuna ragione. Quindi ascoltami.

Non lontano di qui si trova Sparta, una bellissima città dell’Acaia. Ai confini di essa devi cercare un promontorio di nome Tenaro, che si trova in un luogo nascosto e fuori mano, Lì si apre una spaccatura che porta al regno degli Inferi, e attraverso le sue porte spalancate si intravede un cammino inaccessibile. Tu supera la porta e avviati per quella strada; arriverai attraverso questo cunicolo alla reggia dell’Orco.

Ma non dovrai andare là, in quelle tenebre, a mani vuote: porta in entrambe le mani una focaccia d’orzo impastata con vino e miele, e mettiti in bocca due monetine.

Quando avrai percorso buona parte di quella strada destinata ai morti incontrerai un asino zoppo carico di legna, con un mulattiere, anch’egli mal messo, il quale ti pregherà di raccogliergli un po’ della legna di fascina che gli va cadendo per la via. Tu non dargli retta e senza rispondere passa oltre in silenzio. Poco dopo giungerai al fiume dei morti, il cui traghettatore è Caronte, che chiede per prima cosa il prezzo del passaggio, poi con la sua barcaccia di cuoio rappezzato traghetta i passeggeri nell’altra riva. Sì, infatti anche tra i morti è viva l'avarizia! Caronte infatti che è l’esattore dell’inferno, un dio certamente molto grande, non fa nulla per nulla; perciò anche il povero quando muore deve provvedersi dei soldi per il viaggio, perché se non si presenta coi soldi in bocca non gli danno neppure il permesso di crepare.

A questo laido vecchio tu darai come nolo una delle monetine che porti in bocca, ma fa’ in modo che la prenda lui stesso con la sua mano.

Poi, quando starai attraversando la lenta corrente, vedrai un vecchio morto galleggiare nell’acqua: ti tenderà le braccia scarne, pregandoti di accoglierlo dentro la barca. Tu però non lasciarti prendere dalla pietà, che non è consentita laggiù.

Passato il fiume incontrerai poco più in là alcune vecchie intente a tessere una tela, che ti chiederanno di dargli una mano: ricordati che non puoi fare neanche questo. Tutte queste cose, è necessario che tu lo sappia, sono tutti tranelli di Venere allo scopo di farti lasciare una delle focacce che avrai in mano. E non credere che questa delle focacce sia una cosa di poco conto: perché se tu ne perderai una sola non ritomerai mai più alla luce. Infatti c’è un enorme cane, un mostro con tre teste enormi, che con i suoi latrati assordanti rintrona le orecchie dei morti terrorizzandoli, anche se non può far nulla; e in tal modo fa la guardia alla soglia e al nero atrio di Proserpina, e custodisce la vuota dimora di Dite.

Così senza difficoltà giungerai dinanzi a Proserpina. Essa ti accoglierà con benignità e cortesia, anzi ti inviterà perfino a sedere e ristorarti con un buon pranzo. Tu però siediti a terra, mangia un tozzo di pane nero che chiederai in elemosina, poi riferisci il motivo per cui ti trovi lì, e preso in consegna quello che ti verrà dato prendi la via del ritorno. Placa nuovamente il cane con quell’altra focaccia, dài l’altra moneta all’avaro traghettatore e, ripassato il fiume, ripercorri lo stesso tragitto dell’andata, e tornerai a rivedere questo coro di stelle celesti.

C’è un’ultima raccomandazione, ed è la più importante: non aprire e non guardare dentro al vasetto che porterai, e comunque non essere troppo curiosa riguardo al tesoro di divina bellezza che è nascosto lì dentro”.

Così la torre profetica mise fine con queste parole alla sua funzione d’oracolo.

Psiche non indugiò: andò verso la porta Tenaria, fornendosi delle monetine e delle focacce, secondo le istruzioni ricevute, e si calò nel cunicolo che porta agli Inferi. Superò senza parlare l’asinaio zoppo, diede la monetina al barcaiolo, non diede retta al morto che galleggiava, spregiò le insidiose preghiere delle tessitrici, placò con l’offerta di una focaccia il cane rabbioso e orrendo, e così poté introdursi nella dimora di Proserpina. Una volta giunta là non volle servirsi della morbida seggiola, e non accettò i cibi squisiti che le venivano offerti dalla dea, ma si sedette per terra ai suoi piedi, e mangiando il suo pane nero riferì la richiesta di Venere.

Prese subito il vasetto che Proserpina aveva riempito e rinchiuso senza farsi vedere; poi offrendo al momento giusto la seconda focaccia chiuse la bocca al cane che latrava, diede quindi la seconda monetina al barcaiolo e risalì dagli inferi con passo più disinvolto di prima.

Così rivide e si prostrò ad adorare la luminosa luce del giorno. Ma sebbene avesse fretta di portare a termine il suo mandato, fu presa da una temeraria curiosità.

“Ma come”, disse, “sarei così sciocca da portare la divina bellezza senza servirmene neppure un po’, magari per rendermi più bella agli occhi del mio amante?.”

E così dicendo aprì il vasetto. Dentro, purtroppo, non c’era proprio niente e neppure l’ombra della bellezza! C’era solo del sonno, un sonno infernale e proveniente davvero dallo Stige, che appena liberato dal coperchio la assalì: una densa nebbia soporifera si diffuse per tutte le sue membra e si impadronì di lei: essa cadde a terra e stramazzò in mezzo alla strada, proprio nel posto dove aveva posato il piede. E così restò là a giacere immobile, simile in tutto a un cadavere sepolto nel sonno della morte.

 

Amore va in aiuto di Psiche

Frattanto Amore, al quale si era cicatrizzata la ferita, non potendo più sopportare l’assenza della sua Psiche, scappò attraverso una finestra altissima della stanza dove era tenuto prigioniero, e siccome durante il sonno gli si erano rinvigorite le ali, volando più veloce che mai accorse in aiuto alla sua diletta. Subito le tolse di dosso tutto quel sonno e con ogni attenzione lo rinchiuse per bene nell’apposito vasetto, poi svegliò Psiche con una leggera e innocua puntura della sua freccia e le disse.

“Ecco che di nuovo, poverina, sei caduta vittima della tua curiosità! Ma adesso pensa a portare a termine il comando di mia madre, per il resto me la vedrò io!"

Disse così, e se ne andò con un volo leggero.

Psiche allora si affrettò a portare a Venere il dono di Proserpina.

Cupido intanto, consumato dall’eccesso del suo desiderio, tutto triste in volto, temendo molto l’improvvisa castità di sua madre, pensò di ritornare alle sue vecchie abitudini.

Perciò penetrò nel centro del cielo con le sue ali veloci, e si mise a supplicare il grande Giove, e a perorare la sua causa. Giove lo prese affettuosamente per la guancia, lo avvicinò in tal modo al suo volto, lo baciò e gli disse:

“Anche se tu, mio signor figlio, non mi hai mai reso quell’omaggio che mi è dovuto per decreto degli dei, ed anzi hai ferito più volte con i tuoi colpi questo mio petto, che regola le leggi della natura e i movimenti degli astri, e contravvenendo alle leggi, e in modo particolare alla legge Giulia10 e alla pubblica moralità hai offeso il mio onore e la mia reputazione con i più sconci adulteri, trasformando vergognosamente il mio volto sereno in serpente, in fuoco, in uccello, in animale da mandria, tuttavia, in considerazione del fatto che sei cresciuto tra le mie braccia, e per non venir meno alla mia ben nota bontà, farò tutto quello che tu vuoi. Stai attento però ai tuoi rivali, e se sulla terra c’è in questo momento qualche fanciulla particolarmente bella, sai bene qual è il tuo dovere: portarmela qui in cambio del piacere che ti faccio!”.

Così parlò Giove, e subito diede ordine a Mercurio di convocare il concilio di tutti gli dèi, avvertendo che, se fosse mancato qualcuno all’adunanza dei Celesti, sarebbe incappato in una multa di diecimila sesterzi.

Per il timore di questo castigo si riempì subito tutto il teatro delle riunioni del cielo, e Giove, dall’alto del suo trono sublime, così parlò:

“O dei coscritti nell’albo delle Muse, tutti certamente sapete che questo ragazzo è venuto su crescendo fra le mie mani. Perciò mi è sembrato giusto frenare un po’ i suoi primi ardori giovanili; ormai si è abbastanza compromesso con adulteri e scandali di tutti i generi che sono sulla bocca di tutti. È meglio pertanto che si tolga di mezzo ogni occasione e che con nozze regolari venga frenata la sua esuberanza giovanile.

Egli si è già scelta la sua ragazza, e l’ha anche privata della verginità: se la tenga, se la sposi, e tra le braccia di Psiche goda eternamente l’amore”.

Poi si volse a Venere e le disse:

“E tu, figlia, non affliggerti e non temere che questo matrimonio con una mortale rechi danno al tuo illustre casato. Io farò subito in modo che le nozze non siano tra sposi di condizione diversa, ma siano legittime e conformi al diritto civile”.  

E subito ordinò a Mercurio di andare a prendere Psiche e di portarla in cielo.

Poi le porse una coppa colma di ambrosia e le disse:

“Bevi, Psiche, e sii immortale! Amore non sarà mai sciolto dal vincolo che lo 

unisce a te. Da oggi voi siete sposi per tutta l’etemità”.

 

Le nozze di Psiche con Amore

Subito dopo venne servito un ricco pranzo di nozze. Lo sposo era posto sul letto più alto, e tra le sue braccia teneva Psiche.

Poi veniva Giove con la sua Giunone, e poi di seguito, in ordine, tutti gli altri dei.

Fu offerto il nettare, che è il vino degli dei: a Giove lo serviva quel pastore fanciullo, suo coppiere, agli altri Bacco. Vulcano cuoceva il pranzo, le Ore spandevano tutt’intorno una pioggia di rose e di altri fiori colorati, le Grazie spandevano profumi e le Muse facevano risuonare i loro canti armoniosi. Poi Apollo cantò accompagnandosi con la cetra, Venere danzò graziosamente in una danza leggiadra: si era formata come un’orchestra, dove le Muse cantavano in coro e suonavano i flauti, mentre Satiro e Panisco soffiavano nella zampogna.

Così Psiche divenne sposa di Amore secondo le prescrizioni del rito, e quando il tempo per il parto fu terminato nacque loro una figlia che noi chiamiamo Voluttà.”

 

Fine della favola di Amore e Psiche.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nota 5: la legge prescriveva che non potessero tolti ai figli i beni avuti dal padre. Apuleio applica le leggi del tempo, che conosceva bene come avvocato, anche al mondo degli dei, rendendone così scherzoso il riferimento.  

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Nota 6: secondo un’antica diceria, se ad un bambino piccolo non si tagliavano le unghie, da grande diventava un ladro.  

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Nota 7: Venere era figlia di Giove, fratello di Cerere.  

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Nota 8: Venere era moglie di Vulcano, figlio di Giove e di Giunone.  

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Nota 9: valle tra il Palatino e l’Aventino dove si trovava una tempietto in onore di Mercurio.  

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Nota 10: legge che puniva l’adulterio.

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