La Fabula Milesia

Abbiamo conoscenza di una raccolta di Milesiakà (= racconti milesii) dalla tradizione indiretta. Ovidio nei Tristia afferma che mentre egli fu accusato di immoralità per aver scritto l'Ars amatoria, gli autori delle fabulae milesiae, ben più licenziose, non subirono nessuna condanna.
Plutarco, nella vita di Crasso, nel cap. 32 dice che Surena, principale artefice della misera fine di Crasso, presentò al senato di Seleucia dei volumi particolarmente licenziosi trovati nel bagaglio di Roscio. Si trattava dei racconti milesii di Aristide, i quali offrirono lo spunto per schernire abbondantemente i Romani, se neppure in guerra sapevano trattenersi dal fare e dal leggere cose simili.
Lo Pseudo-Luciano negli Amori accenna ai racconti voluttuosi di Aristide.
San Girolamo infine condanna questi racconti, figmenta Milesiana, per il loro contenuto scabroso.
Tutto quello che sappiamo è che si facevano risalire ad Aristide di Mileto, scrittore greco vissuto nel II sec. a.C., di cui non ci è pervenuto nulla. Essi furono tradotti a Roma da Sisenna, lo storico di Silla, ed ebbero straordinaria popolarità soprattutto fra le truppe (delle traduzioni di Sisenna ci sono rimasti dieci brevissimi frammenti).
Il loro contenuto era erotico, la narrazione probabilmente in prima persona.
Nella letteratura latina si trovano due esempi di novelle milesie nel Satyricon di Petronio, note con il titolo rispettivamente di La matrona di Efeso e Il fanciullo di Pergamo in cui note dominanti sono l'eros e l'ironia. Apuleio, poi, presenta il suo romanzo, Le metamorfosi, come un insieme di varie novelle intrecciate in stile milesio.





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